Nanostructures for photonics, photovoltaics and sensing

Francesco Priolo, Alessia Irrera, Salvatore Mirabella, Antonio Terrasi


Nanostrutture per la fotonica, il fotovoltaico e la sensoristica

1 Nanostrutture di silicio per la fotonica

Il silicio è il materiale principe in microelettronica e la sua tecnologia matura ha rivoluzionato la nostra vita quotidiana. Purtroppo, essendo un semiconduttore a gap indiretta, il silicio è un emettitore di luce poco efficiente e le sue applicazioni in fotonica sono state sinora limitate. La fotonica in silicio avrebbe un particolare vantaggio permettendo di integrare dispositivi microelettronici e fotonici all’interno di uno stesso chip e dando avvio ad una nuova rivoluzione tecnologica. Affinché sia possibile l’emissione di un fotone in silicio, la ricombinazione tra un elettrone e una lacuna (i portatori di carica nei semiconduttori) deve essere assistita dalla presenza di un fonone (un quanto di vibrazione reticolare) che garantisca la conservazione del momento cristallino. La probabilità di tale processo a tre corpi è molto bassa ed è in competizione con le ricombinazioni di coppie elettrone/lacuna su canali non radiativi. L’efficienza di emissione a temperatura ambiente è pertanto inferiore a 10–7, cioè si ha emissione di un fotone una sola volta ogni dieci milioni di ricombinazioni.

Un’intensa attività di ricerca è stata focalizzata negli ultimi trent’anni allo sviluppo di nuovi materiali a base di silicio in grado di emettere luce in modo efficiente e rendere così possibile una fotonica in silicio. Un metodo che ha riscontrato particolare successo è quello dell’utilizzo di nanostrutture di silicio. È stato dimostrato che il confinamento di elettroni e lacune all’interno di strutture di silicio di dimensione nanometrica determina un notevole aumento della probabilità di emissione radiativa con una conseguente emissione di luce a temperatura ambiente. Inoltre, come per qualunque particella confinata in una buca di potenziale, l’energia di elettroni e lacune aumenta al diminuire delle dimensioni di confinamento con la conseguenza diretta che la lunghezza d’onda della luce emessa dipende dalle dimensioni della nanostruttura (fig.1).

In questo ambito i nanoclusters (nc) di silicio immersi in una matrice isolante di ossido di silicio (SiO2) rappresentano uno dei sistemi più interessanti sia per la loro elevata stabilità sia per il fatto che possono essere preparati con tecniche compatibili con la tecnologia del silicio. Una delle tecniche più usate per crescere i nc di silicio è la deposizione chimica da fase vapore assistita da plasma (PECVD). La tecnica si basa sulla decomposizione di specie gassose su un substrato di silicio che porta alla formazione di film le cui caratteristiche variano a seconda delle condizioni chimiche e fisiche del processo di deposizione. Il film depositato è un ossido di silicio con un eccesso della concentrazione di silicio (SiOx con x<2 ), tramite un processo termico ad alta temperatura (intorno ai 1000 °C) si ha una separazione di fase con la conseguente formazione dei nc di Si all’interno di una matrice di SiO2. Variando la concentrazione di silicio del film o la temperatura del processo termico si può variare la dimensione nanometrica dei nc di Si. In fig. 2 (a) è riportata la microscopia elettronica in trasmissione (TEM) di un campione di nc immersi in una matrice di SiO2, i nc con una dimensione media di circa 2,1 nm appaiono bianchi mentre la matrice di SiO2 appare scura. In fig. 2 (b) è possibile osservare chiaramente un singolo nc in un’immagine TEM in alta risoluzione. La dimensione dei nc di Si garantisce il confinamento quantico dei portatori (elettroni e lacune). I nc di Si emettono luce nel visibile e variando la loro di emissione come dimostrato in fig. 2 (c) dove si osserva che aumentando la taglia dei nc l’emissione si sposta verso lunghezze d’onda maggiori.

Cruciale per le applicazioni industriali di questi sistemi a nc di Si è la realizzazione di dispositivi che emettono luce a temperatura ambiente sotto stimolo (pompaggio) elettrico. Un dispositivo emettitore di luce (LED) realizzato in queste strutture è mostrato in fig. 2 (d). Si tratta di una struttura metallo-ossido-semiconduttore (MOS) dove lo strato di ossido contiene i nc di silicio. L’emissione di luce è intensa ed uniforme come si può osservare nella microscopia a emissione (EMMI) riportata in fig. 2 (e) del LED ottenuta applicando una tensione di 15 V al dispositivo. L’immagine è in falsi colori, il rosso è il massimo dell’intensità relativa di emissione. Lo spettro di emissione in funzione della lunghezza d’onda sotto eccitazione elettrica ed ottica è riportato in fig. 2 (f), dove si osserva che i due spettri di fotoluminescenza (PL – ottenuto per eccitazione ottica) ed elettroluminescenza (EL – ottenuto per eccitazione elettrica) sono molto simili, con una lunghezza d’onda di emissione intorno agli 850 nm.

Nel campo delle telecomunicazioni è strategico riuscire ad ottenere una sorgente di fotoni a 1,5 μm – la lunghezza d’onda in cui le fibre ottiche in silice attualmente usate hanno il minimo delle perdite – implementabile con la tecnologia del silicio. Uno degli approcci più promettenti è rappresentato dall’utilizzo di ioni erbio (nello stato di carica 3+), che hanno una riga di emissione a 1,54 μm. Tipicamente dimensione nanometrica è possibile, in accordo con la teoria del confinamento quantico, variare la lunghezza d’onda lo ione erbio può essere eccitato soltanto per assorbimento risonante di un fotone con i suoi livelli energetici e quindi soltanto con particolari lunghezze d’onda. In presenza di nc di Si gli ioni erbio in matrice di SiO2 possono essere eccitati attraverso trasferimento preferenziale di energia dai nc i quali fungono da centri di assorbimento. Il processo è particolarmente efficiente e la sezione d’urto di eccitazione degli ioni erbio risulta incrementata di ben 5 ordini di grandezza rispetto all’assorbimento diretto di fotoni. Questo processo di trasferimento energetico è chiaramente evidenziato osservando l’intensità di emissione luminosa da nc di Si all’aumentare della concentrazione dell’erbio. L’emissione a 800 nm (tipica dei nc) diminuisce all’aumentare della concentrazione di Er mentre quella a 1,5 μm (tipica dell’erbio) aumenta considerevolmente anche a frequenze di eccitazione per le quali l’erbio non potrebbe essere eccitato, come riportato in fig. 2 (g). La presenza dei nc di Si come centri assorbitori, quindi, rende possibile l’eccitazione dell’erbio in un ampio range di lunghezze d’onda permettendo di immaginare amplificatori ottici pompati con luce bianca. Questo sistema può essere anche pompato elettricamente e l’emissione di un LED con nc e ioni erbio a 1,54 μm e a temperatura ambiente è mostrata in fig. 2 (h). Il sistema nc ed erbio garantisce la compatibilità industriale con la tecnologia del silicio e l’emissione a 1,54 μm strategica per le telecomunicazioni.

Una soluzione differente al problema è rappresentata dall’utilizzo di cristalli fotonici (PC). I cristalli fotonici sono delle strutture periodiche il cui indice di rifrazione viene opportunamente modulato in modo da controllare il trasporto della luce all’interno del mezzo ed ingegnerizzarne le proprietà ottiche. Introducendo in modo controllato dei difetti nella struttura periodica del cristallo fotonico è possibile confinare la luce in una specifica regione o guidarne la fuoriuscita dal mezzo, realizzando così nanocavità e guide d’onda a cristallo fotonico.

L’utilizzo di strutture a cristallo fotonico consente di amplificare emissioni relativamente deboli. Ad esempio, in silicio, difetti decorati con idrogeno sono otticamente attivi nella regione dell’infrarosso. Processi di plasma etching con idrogeno possono aumentare in maniera controllata la concentrazione di tali difetti la cui emissione può poi essere messa in risonanza con una nanocavità a cristallo fotonico. Una opportuna ingegnerizzazione permette infine il pompaggio elettrico della struttura. A tale scopo, si riporta la realizzazione di un diodo emettitore di luce (LED) interamente integrato in silicio, basato su una nanocavità a cristallo fotonico trattata mediante un processo a plasma di idrogeno per integrare dei difetti otticamente attivi nella matrice del silicio.

La fig. 3 (a) mostra la microscopia elettronica a scansione (SEM) di un LED a nanocavità costituito da una membrana di cristallo. Il design del PC è ingegnerizzato per l’emissione di luce infrarossa ed è stato realizzato tramite diversi processi di litografia da fascio elettronico e di etching su substrato di silicio cresciuto su uno strato di isolante (SOI). La periodicità del PC è interrotta nella regione centrale dove si nota l’assenza di tre fori. Questo “difetto” di periodicità costituisce una cavità risonante la cui architettura è ottimizzata per luce infrarossa. Tramite un processo di etching del substrato di ossido di silicio si è realizzata una membrana a PC sospesa, connessa da due ponti al substrato di silicio. Sulla membrana sono realizzate delle regioni molto drogate di tipo p (in rosso) ed n (in verde) che una volta attivate termicamente costituiscono i contatti per il pompaggio elettrico del dispositivo. Il dispositivo finale è costituito da una giunzione p-i-n che attraversa la cavità fotonica dove viene convogliata la luce pompata elettricamente, come dimostrato dalla microscopia ottica del dispositivo riportata nell’inset.

Una volta costruito il PC e depositati i contatti, il sistema viene introdotto in un apparato di etching reattivo tramite ioni e quindi sottoposto ad un trattamento in presenza di un flusso di idrogeno per incrementarne le prestazioni di emissione di luce. Gli studi evidenziano che il processo in plasma introduce nella matrice dei difetti (fig. 3 (b)) otticamente attivi che emettono nell’infrarosso. L’importanza del processo in plasma è significativa per incrementare le prestazioni ottiche del dispositivo ed inoltre risulta compatibile con i processi industriali su Si in quanto viene effettuato a seguito della realizzazione dell’intero dispositivo.

L’efficienza di emissione del dispositivo è mostrata in fig. 3 (c) dove sono riportati gli spettri di emissione di una serie di LED con nanocavità a PC trattate con idrogeno aventi diversa periodicità [370–450 nm] (picchi colorati). I dispositivi emettono con picchi estremamente stretti e la riga di emissione viene modulata con facilità variando la periodicità del PC. Gli spettri di PL dei dispositivi sono mostrati a paragone con l’emissione del substrato di silicio (curva in nero). Il confronto degli spettri mostra che l’emissione del silicio è estremamente bassa ed inferiore a quelle delle nanocavità di oltre 4 ordini di grandezza. Questo grande incremento dell’emissione del dispositivo a PC dipende dalla combinazione della presenza di difetti otticamente attivi che incrementano il fondo di emissione, dall’effetto della cavità risonante e dalla introduzione di una ben definita bandgap fotonica. Questo nanoLED a cavità a PC ha una densità spettrale pari a 10 pW/nm, che costituisce uno dei valori più significativi presenti in letteratura nell’ambito dei dispositivi emettitori realizzati in silicio tramite pompaggio elettrico. Inoltre l’efficienza di emissione per EL è comparabile a quelle ottenute da laser realizzati con materiali del gruppo III-V a bandgap diretta. I risultati ottenuti confermano le grandi potenzialità di questi sistemi nell’ambito della fotonica interamente integrabile su Si.

Un ulteriore approccio particolarmente promettente è rappresentato dall’utilizzo di nanofili (NWs), strutture quasi unidimensionali (1D). I NWs godono di importanti caratteristiche elettriche, ottiche e di elevato rapporto superficie/volume. Grazie a queste proprietà i NWs vengono usati nei settori più disparati, dalle applicazioni nanoelettroniche a quelle sensoristiche. L’uso dei NWs di Si nell’ambito della fotonica è stato abbastanza limitato a causa delle metodologie che vengono solitamente usate per prepararli. Infatti la tecnica più utilizzata è il metodo Vapore Liquido Solido (VLS). La VLS si basa sull’introduzione di un flusso gassoso contenente atomi di silicio in una camera in cui è presente un substrato di silicio, con sopra depositate nanoparticelle (clusters) di oro e riscaldato ad una temperatura superiore a quella dell’eutettico oro-silicio (364°C). Quando viene raggiunta la condizione di eutettico tra il substrato di Si e i clusters di oro si forma uno strato di liquido. L’introduzione di atomi di silicio nella camera di deposizione determina un aumento della concentrazione di Si nel liquido all’interfaccia Au-Si e quando questa supera quella di equilibrio (16% at.) il sistema non è più in equilibrio termodinamico e gli atomi di Si precipitano in forma solida. La precipitazione in forma solida degli atomi di silicio sotto i clusters di oro determina la crescita di strutture solide unidimensionali di Si sormontate da un cluster di Au, i NWs. Questa tecnica ha numerosi vantaggi ma anche grandi limiti: i) gli atomi di oro diffondono anche dentro il NW e questo determina la presenza di livelli al centro della gap del Si che li rendono inadatti ad applicazioni fotoniche; ii) il drogaggio con questo metodo è non uniforme e ciò è un grosso problema per la realizzazione di dispositivi; iii) tramite questo metodo non è possibile preparare nanofili con un diametro sotto la decina di nanometri e quindi non è possibile avere confinamento quantico ed emissione di luce a temperatura ambiente.

Un metodo di fabbricazione differente che non presenta i limiti della VLS è basato su attacchi chimici in substrati di silicio, assistiti da strati sottili discontinui di metallo. Su un substrato di Si viene depositato un film di spessore ultra sottile di metallo (ad esempio oro tra i 2 e i 3 nm). Il film si presenta quale strato discontinuo, come visibile nella microscopia elettronica a scansione (SEM) di un film di 2 nm di oro mostrata in fig. 4 (a), dove le zone scure sono il Si non ricoperto. Il campione depositato viene immerso in una soluzione composta da 50 ml di H2O, 30 ml di H2O2 e 20 ml di HF per 100 ml di soluzione. Nelle regioni di contatto tra l’oro ed il silicio si realizza una ossidazione del silicio e un attacco dell’ossido formato. Il risultato è la rimozione del Si al di sotto delle zone ricoperte da metallo, mentre nelle zone complementari non ricoperte di oro non si ha nessun attacco. Si ottiene pertanto la formazione dei NWs visibili in fig. 4 (b) tramite la SEM in sezione. Questo metodo ha diversi vantaggi rispetto alla VLS: il processo è compatibile con le tecnologie industriali, economico, a temperatura ambiente e quindi l’oro non diffonde dentro il NW ma può essere rimosso tramite un opportuno attacco chimico alla fine del processo. Inoltre il drogaggio dei NWs ottenuti è identico a quello del substrato di partenza e quindi noto e ben definito. Il vantaggio strategico per l’applicazione di questi sistemi nella fotonica è inoltre legato al fatto che il diametro di questi NWs è di pochi nanometri (tra 5 e 9 nm), quindi compatibile con il confinamento quantico e l’emissione di luce a temperatura ambiente. La presenza di confinamento quantico è chiaramente mostrata in fig. 4 (c), dove vengono riportati gli spettri di PL dei campioni con NWs di diametro diverso (da 5 a 9 nm). La figura mostra la variazione della lunghezza d’onda di emissione con il diametro in perfetto accordo con la teoria del confinamento quantico. L’emissione a temperatura ambiente è efficiente e visibile ad occhio nudo come osservabile nella foto del campione eccitato con luce ultravioletta (fig. 4 (d)). un dispositivo emettitore di luce a temperatura ambiente basato sui NWs di Si. La fig. 4 (e) mostra lo schema di un tale dispositivo, una giunzione p-n ottenuta con NWs di Si avente sul top un conduttore trasparente (ossido di zinco drogato con alluminio, AZO). Applicando una tensione sul dispositivo si ottiene il flusso di corrente che eccita i NWs e quindi l’emissione di luce a temperatura ambiente, come visibile in fig. 4 (f) dove sono riportati gli spettri di elettroluminescenza (EL) ottenuti con tensioni da 2 V a 6 V. Il processo di attacco è stato ingegnerizzato per ottenere array di NWs con particolari morfologie, in particolare sono state realizzate delle geometrie frattaliche. I frattali sono dei sistemi estremamente affascinanti con delle proprietà uniche, presenti in natura e nella vita di tutti i giorni. Infatti sono sistemi in cui la morfologia si mantiene uguale al variare della scala di osservazione. Per realizzare strutture di NWs frattaliche l’idea è stata di usare per l’attacco uno strato di oro che abbia una geometria frattalica, dato che l’oro è la Un punto strategico per le applicazioni è la realizzazione di maschera negativa che determina l’arrangiamento dei NWs. Un film di oro estremamente sottile al limite di percolazione è stato dimostrato essere un frattale. Lo strato frattalico di oro è stato usato per realizzare l’attacco ed è stato dimostrato che questo determina la realizzazione di un frattale di NWs. In fig. 4 (g) sono riportate le immagini SEM realizzate in piano nello stesso punto del campione con i NWs ad ingrandimenti crescenti di 25 K ×, 250 K × e 2500 K × dove è chiaramente visibile la stessa struttura che si ripete a scale dimensionali differenti. La geometria frattalica dei NWs determina una significativa fluttuazione dell’indice di rifrazione nel piano che determina un forte scattering della luce all’interno del campione. Questo alto scattering dentro il campione produce un aumento di tutti i fenomeni di eccitazione che rendono più efficienti i processi di emissione di PL e Raman (fig. 4 (h)) e permettono l’osservazione del fenomeno di retrodiffusione coerente della luce Raman mai osservato prima in altri sistemi.

2 Nanostrutture per il fotovoltaico

La crescita di consumo energetico a livello mondiale (oggi siamo a circa quindicimila miliardi di watt per anno!), apparentemente inarrestabile, ha imposto alla società civile, ai governi delle Nazioni tecnologicamente più evolute e alla comunità scientifica un’attenzione particolare verso l’approvvigionamento e l’utilizzo delle varie fonti di energia. L’esaurimento delle risorse di combustibili convenzionali (petrolio, gas, carbone) ed il riscaldamento globale dovuto all’emissione di gas serra, conseguenza del loro utilizzo, sono questioni sempre più attuali e non rimandabili. Le azioni per contrastare quest’emergenza planetaria e consentire uno sviluppo sostenibile sono essenzialmente tre: un miglior utilizzo di tutte le fonti energetiche, il riciclo dei materiali e la produzione di energia da fonti rinnovabili o comunque con basso impatto ambientale.

Tra le varie fonti energetiche rinnovabili quella con maggiori potenzialità ed impatto a livello sociale è senz’altro l’energia solare che, almeno in teoria, supera di diecimila volte l’attuale fabbisogno dell’uomo. Tra di esse la fotovoltaica riveste un ruolo primario, consentendo la conversione diretta della luce solare in elettricità grazie alle celle solari che funzionano senza parti meccaniche in movimento o l’utilizzo di combustibile.

L’effetto fotovoltaico si basa sulle proprietà dei materiali semiconduttori nei quali la luce viene assorbita creando coppie elettrone-lacuna, queste ultime possono essere separate dal campo elettrico interno di una giunzione p-n. Gli elettroni raggiungono la zona “n” mentre le lacune migrano verso la regione “p”, creando una differenza di potenziale utilizzabile per generare corrente elettrica continua attraverso un circuito esterno (fig. 5 (a)). È chiaro, quindi, che la tecnologia ed i materiali semiconduttori alla base delle celle solari sono il focus per sfruttare al meglio questa particolare forma di energia rinnovabile.

Si possono avere celle solari molto efficienti che richiedono tecnologie e materiali complessi e costosi, oppure dispositivi meno efficienti, ma realizzati con processi e materie prime più economiche. Sebbene il vero criterio di differenziazione per il fotovoltaico sia il costo finale dell’energia prodotta, resiste ancora oggi una classificazione delle celle solari, non da tutti condivisa, basata sulle “generazioni” (fig. 5 (b)). La prima generazione è caratterizzata da dispositivi ad efficienza medio-alta con elevati costi di produzione per unità di area. Ad essa appartengono le celle realizzate utilizzando wafer di silicio, mono- e poli-cristallino, che ancora oggi costituisce la tecnologia dominante (più del 90%) nelle applicazioni commerciali.

La seconda generazione sfrutta la deposizione di film sottili di vari materiali semiconduttori microcristallini o amorfi su substrati di basso costo quali vetro, metallo e plastica. L’utilizzo dei film sottili riduce notevolmente la quantità di materiale impiegato (abbassando così i costi) ma la qualità finale del prodotto, anche da un punto di vista della durata ed affidabilità nel tempo, ha un forte impatto sull’efficienza delle celle solari di questo tipo. La terza generazione, infine, non ha una tecnologia ben definita ma si pone come obiettivo un’efficienza di conversione simile a quella delle celle di prima generazione con costi di fabbricazione tipici della seconda. Per questa ragione si parla ormai sempre più spesso di celle solari basate su tecnologie, architetture e materiali innovativi che possano superare gli attuali limiti di efficienza di conversione energetica consolidando il primato del fotovoltaico nella produzione di energia rinnovabile. Un discorso a parte andrebbe fatto per le celle solari basate su materiali organici (quelle a coloranti, per esempio) che hanno costi molto bassi ma grossi problemi di affidabilità ed efficienza.

Andando a guardare il funzionamento di una cella solare si nota che i principali meccanismi di perdita energetica sono quelli schematizzati nella fig. 5 (c):

• Mancato assorbimento di fotoni con energia E minore dell’energia di gap Eg del semiconduttore, 1.
• Termalizzazione delle coppie elettrone-lacuna, generate dall’assorbimento di fotoni con energia E maggiore dell’energia di gap Eg, attraverso il rilassamento dell’elettrone e della lacuna nelle rispettive bande energetiche, 2.
• Caduta di tensione all’interfaccia della giunzione p-n, 3.
• Schermatura della carica dovuta alla presenza degli elettrodi di contatto, 4.
• Ricombinazione delle coppie elettrone-lacuna prima che esse vengano raccolte agli elettrodi, 5.

Tuttavia già soltanto i primi due meccanismi sono responsabili di circa il 50% della perdita d’energia solare incidente sulla cella e per limitarli sono stati proposti diversi approcci:

a) la presenza di più materiali con diverse Eg per assorbire la luce in modo selettivo;
b) la generazione multipla di coppie di cariche per mezzo di singoli fotoni di alta energia;
c) la cattura delle cariche prima della termalizzazione.

L’approccio a) è quello che già oggi viene realizzato tramite la realizzazione di celle a multigiunzione come quella schematicamente raffigurata in fig. 6 (a) che, a scapito di un costo di produzione molto elevato ed una complessa architettura, sfruttano la sequenza di materiali con diverse gap energetiche che si sovrappongono ad un’ampia regione dello spettro solare assorbendone così in modo selettivo ed efficiente una buona parte. In particolare, la cella più in alto è caratterizzata da gap maggiore in modo d’assorbire i fotoni a più alta energia e lasciar passare quelli ad energia più bassa che verranno assorbiti dalla cella sottostante, e così via in cascata. Per i punti b) e c) invece le attuali tecnologie non sembrano poter offrire soluzioni efficaci.

È in quest’ambito che si inseriscono le nanotecnologie per la realizzazione di materiali innovativi che consentano il dualismo alta efficienza-bassi costi nella fabbricazione di celle fotovoltaiche. Infatti, in linea di principio, l’utilizzo di materiali di dimensioni nanometriche consentirebbe di realizzare tutti e tre gli obiettivi appena descritti attraverso i fenomeni di confinamento quantico di elettroni e lacune che portano a una modifica delle bande energetiche.

Questa “ingegneria delle bande energetiche” dovuta alle nanostrutture può essere utilizzata per aumentare la conversione dell’energia solare e realizzare celle fotovoltaiche con efficienze non raggiungibili tramite le tecnologie attuali. Riferendoci ai tre approcci di cui sopra, vediamo come l’utilizzo delle nanotecnologie possa essere la soluzione alle limitazioni dovute ai materiali convenzionali.

a) L’utilizzo di materiali con diverse gap per le celle a multigiunzione, con assorbimento sequenziale e selettivo della luce solare di varia energia, verrebbe sostituito dal concetto di nanostrutture di diversa dimensione (quindi diversa gap) di un unico materiale, opportunamente assemblate come proposto da Martin Green della SNWU (Australia) nella così detta all Si quantum dot solar cell schematizzata in fig. 6 (b). Il principio base di questa cella innovativa è quello di sfruttare le proprietà quantistiche dei nanocluster di Si –“quantum dots” (QD)– in una matrice dielettrica ad alta gap per ottenere una sequenza di strati contenenti nanocluster di dimensioni via via crescenti dall’alto verso il basso. I primi QD (più piccoli e con gap più grande) assorbirebbero i fotoni più energetici, gli altri fotoni, a energie via via decrescenti, sarebbero assorbiti invece dagli strati sottostanti in cui la gap decresce per effetto della dimensionalità.

b) La possibilità di modificare in modo controllato i livelli energetici permetterebbe, dopo l’assorbimento di un fotone di elevata energia, di usare l’eccesso di energia rispetto alla gap per la creazione di una seconda coppia elettrone-lacuna invece che dissiparlo interamente in calore, come schematizzato in fig. 6 (c) e (d). In questo modo si ottengono più elettroni (quindi maggiore corrente elettrica) a fronte dell’assorbimento di un solo fotone. Questi effetti sono stati dimostrati in diversi sistemi come, ad esempio, nanocluster di PbSe e PbS (rispettivamente, seleniuro e solfuro di piombo). La moltiplicazione delle cariche può avvenire solo se i fotoni hanno energia pari almeno al doppio della gap.

c) Il prelievo delle cariche elettriche fotogenerate prima che esse ricedano sotto forma di calore parte dell’energia ricevuta dalla luce richiede che il rilascio di energia termica sia inibito. In un solido l’energia termica è associata alle vibrazioni reticolari (fononi) anch’esse caratterizzate da livelli energetici che, in una nanostruttura, possono essere controllati e modificati al pari di quelli elettronici. Si può quindi immaginare un materiale i cui i livelli vibrazionali non possano assorbire l’energia cinetica in eccesso degli elettroni e, di conseguenza, quest’ultima non possa essere convertita in calore prima che l’elettrone stesso sia raccolto dai contatti elettrici.

Come accennato sopra, sistemi di questo tipo possono essere realizzati tramite nanostrutture di varia natura, sia inorganica che organica, immerse (confinate) in un materiale con gap energetica molto più alta che funga da barriera di potenziale. Molti studi hanno riguardato inizialmente i nanocluster di Si in matrice di SiO2, come quelli ipotizzati da Martin Green per la sua cella innovativa descritta in fig. 6 (b), soprattutto perché il silicio è ancor oggi il materiale tecnologicamente più utilizzato ed evoluto in vari ambiti applicativi. Effetti di confinamento quantico per il fotovoltaico sono però osservabili in molti altri materiali nanostrutturati (abbiamo già citato il PbSe e il PbS per la generazione multipla di cariche) e con prestazioni anche superiori a quelle del silicio.

Un ulteriore esempio di nanostruttura con grandi potenzialità applicative nel fotovoltaico è rappresentato dai cluster di germanio. Il Ge offre, infatti, diversi vantaggi rispetto al più diffuso Si, in quanto la sua gap è 0,67 eV (più efficace nell’assorbimento di fotoni di bassa energia) ed il suo raggio eccitonico di Bohr è 18 nm, il che vuol dire che gli effetti di confinamento quantico, per cui la sua gap può essere aumentata fino a oltre 2 eV, si ottengono con cluster ben più grandi di quelli del Si. In pratica una modulazione della gap più ampia e tecnologicamente più semplice da realizzare. Anche il metodo di crescita di questi materiali è totalmente compatibile con i processi industriali su larga scala, consistendo nella co-deposizione tramite processi fisici (sputtering) o chimici (CVD, sol-gel o soluzioni colloidali) di un film di poche centinaia di nanometri di SiO2 e Ge. Il film viene poi scaldato a circa 600–800 °C causando la formazione di nanocluster di Ge totalmente circondati (confinati) dalla matrice di SiO2. I risultati di questi processi sono schematizzati in fig. 7 (a) per un campione a singolo strato di QD e fig. 7 (b) per un multistrato. Le microscopie elettroniche in trasmissione dei rispettivi campioni reali sono visibili, in falsi colori, in fig.7 (c) e fig. 7 (d), quest’ultima relativa ad un film contenente ben 15 strati di QD. Nel materiale a singolo strato le nanostrutture di Ge hanno un diametro variabile da 2 a 12 nm circa ed una distanza media di 3 nm. Nel campione a multistrato, anche se non osservabile dalla microscopia qui riportata, la dimensione dei QD è più definita, con un valor medio di 3 nm ed una separazione di soli 1–2 nm tra QD contigui. Forse proprio la notevole vicinanza tra i QD in questa particolare configurazione potrebbe essere all’origine del forte incremento dell’efficienza di assorbimento della luce (fino a 15 volte) rispetto a quella del film a singolo strato.

L’effetto positivo dei QD di Ge è stato anche evidenziato in semplici fotorivelatori realizzati in laboratorio inserendo un film di SiO2 con o senza nanostrutture tra un substrato di Si di tipo n ed un elettrodo trasparente, come schematizzato in fig. 7 (e). In questo caso si è misurata la corrente elettrica ottenuta polarizzando i due contatti in modo diretto (negativo sul silicio e positivo sul lato trasparente) o al contrario (polarizzazione inversa), sia in condizioni di buio che sotto illuminazione con luce bianca o di una lunghezza d’onda ben definita. Si è così trovato che la presenza di QD di Ge aumenta di ordini di grandezza la fotocorrente in polarizzazione inversa (fig. 7 (g)) rispetto allo stesso dispositivo in assenza di QD (fig. 7 (g)), e con una risposta dipendente anche dalla lunghezza d’onda della luce. Questo comportamento è stato attribuito alla capacità dei QD di intrappolare lacune al loro interno con un tempo di vita medio sufficientemente elevato da generare e facilitare una maggiore iniezione di elettroni dall’elettrodo trasparente polarizzato negativamente rispetto al silicio sottostante. In tal modo il fotorivelatore contenente QD di Ge genera una vera e propria moltiplicazione di carica elettrica a seguito della luce assorbita.

In definitiva, benché ancora non applicate alle celle solari di produzione industriale, le nanotecnologie permettono di sintetizzare nuovi materiali con proprietà chimico-fisiche impensabili fino a poco tempo fa e con enormi potenzialità per la realizzazione di pannelli fotovoltaici innovativi con efficienze di conversione anche doppie rispetto alle attuali. Molti degli effetti dovuti al confinamento quantico delle nanostrutture sono stati dimostrati in laboratorio e tutti gli sforzi sono ora finalizzati ad un effettivo trasferimento tecnologico su larga scala.

3 Nanostrutture per la sensoristica

Nello sviluppo di sensori innovativi le nanotecnologie hanno avuto e continuano ad avere un ruolo cruciale, in quanto permettono di migliorare le prestazioni dei sensori in termini di sensibilità, velocità, stabilità, selettività e rapporto segnale-rumore (le cosidette “5S”, dall’inglese: sensitivity, speed, stability, selectivity, signal-to-noise ratio). Molti materiali, se ridotti alla scala del nanometro, mostrano nuove funzionalità e compatibilità biologiche che possono aumentare la selettività nella rivelazione di uno specifico analita. Inoltre, la nanostrutturazione offre vantaggi intrinseci, quali maggiore sensibilità e velocità, tutti legati sostanzialmente all’aumento della superficie esposta. Del resto, in un sensore, il materiale sensibile reagisce con l’analita da rivelare proprio all’interfaccia tra il materiale solido e il mezzo (gas o liquido) in cui l’analita è disperso, pertanto quanto maggiore è la superficie esposta tanto più alta sarà, in genere, la sensibilità del dispositivo.

Per aumentare la superficie esposta si potrebbe banalmente usare più materiale sensibile, ma questo farebbe crescere sia i costi sia il volume del dispositivo. In questo senso l’effetto di taglia, tipico delle nanostrutture, è particolarmente utile (fig. 8): dato un cubo di lato a, posso aumentarne la superficie esposta di un fattore 5 usando la stessa massa (o volume) distribuita in 125 (=53) cubi di spigolo a/5 (freccia tratteggiata verticale); oppure posso ottenere la stessa superficie esposta usando meno del 10% (=5-3/2) della massa (o volume) del cubo di lato a distribuita su tanti cubi molto più piccoli (freccia tratteggiata orizzontale). In altri termini, la nanostrutturazione permette di aumentare la superficie esposta riducendo la massa utilizzata, cioè più sensibilità ad un costo minore! Se è vero poi che la superficie esposta aumenta riducendo la dimensione, questo effetto può essere ancora amplificato cambiando la forma della nanostruttura che si usa. Infatti, a parità di volume (o massa) un cubo ha una superficie esposta più di 6 volte maggiore di una sfera, che è la struttura geometrica tridimensionale col minimo rapporto superficie/volume. Alcune nanostrutture hanno poi una o due dimensioni con estensione spaziale prevalente, come nel caso dei nanofili di ZnO (cilindri esagonali in cui il rapporto altezza/larghezza è circa 10) o dei nanofogli di NiO (il cui spessore è un decimo o anche meno della estensione laterale). A parità di volume, la superficie esposta di questi nanofili è maggiorata del 50% rispetto ad un cubo, e per i nanofogli è addirittura quasi raddoppiata. Poiché oggi le nanotecnologie permettono un ottimo controllo non solo della dimensione ma anche della forma del materiale nanostrutturato, è chiaro che il vantaggio per la sensoristica è assai rilevante. Per avere un’idea dell’incremento della superficie esposta facciamo un esempio considerando le dimensioni tipiche e la densità dei nanofili di ZnO, cioè 40 nm di larghezza, 600 nm di altezza e circa 200 nanofili per μm2 (1 nm = 0,001 μm = 0,000001 mm). La superficie esposta di un singolo nanofilo è circa 2,5·104 nm2, ma poiché su un’area di 1 mm2 ne troviamo 200 milioni, la superficie esposta totale è circa 16 mm2! Questo significa che la dimensione tipica della zona sensibile del sensore può essere ridotta di un fattore 16 senza cambiare la sensibilità, aprendo la strada a sensori sempre più piccoli, economici ed efficienti.

Nel percorso verso l’applicazione di nanostrutture in dispositivi reali e commercializzabili, un ostacolo insormontabile è spesso rappresentato dal costo e dalla fattibilità di produzione delle nanostrutture. Tipicamente si usano due approcci, spesso alternativi: top-down (da solidi macroscopici si riduce via via la dimensione in modo controllato) con tecniche tanto accurate quanto costose, e bottom-up (accrescimento graduale e controllato a partire da singoli atomi o molecole) spesso indirizzato da processi di aggregazione spontanea (self-assembly) che guidano il sistema verso alcune forme specifiche. Un vantaggio estremamente importante è che per alcune nanostrutture (ad es. i nanofili di ZnO, i nanofogli di ZnO e di NiO) la realizzazione è davvero semplice e poco costosa, proprio grazie al self-assembly. Ad esempio, la sintesi dei nanofili di ZnO avviene tramite bottom-up in due fasi: su un substrato prescelto si opera una “semina” di nanocristalliti di ZnO facendo essiccare una soluzione di acetato di zinco in etanolo; poi si immerge il substrato seminato in una soluzione di nitrato di zinco tenuta a temperatura (90°C) e pH (5,7) controllati (tecnica chiamata deposizione da bagno chimico), attivando così una crescita verticale che procede al ritmo di circa 10 nm/min. Un calcolo semplificato dei costi quantifica in soli 80 € la spesa necessaria per ricoprire di nanofili di ZnO un metro quadrato di superficie! Tali nanostrutture sono di ottima qualità cristallina e vengono applicate in svariati campi, dalla sensoristica all’energetica e alla microelettronica. Infatti, oltre ai costi di produzione, è necessario saper controllare le proprietà fisico-chimiche delle nanostrutture per applicazioni in svariati campi, e questo si ottiene grazie ai tanti sforzi cruciali della comunità scientifica che oggi consentono una sempre più accurata comprensione dei meccanismi alla base dei processi di self-assembly, così da permettere un controllo sempre più accurato delle nanostrutture ottenute.

Ma quale materiale nanostrutturato scegliere per un buon sensore ? Non esiste una risposta unica, in quanto dipende dall’analita da rivelare e dal metodo usato (trasduzione elettrica, ottica, elettrochimica, ...). Tuttavia, in genere, si auspica che il materiale usato sia abbondante in natura, biocompatibile, stabile, ottenuto in nanostrutture a basso costo, facilmente integrabile con gli apparati elettronici di controllo e ovviamente con spiccate capacità di rivelazione. Gli ossidi dei metalli di transizione (TMO) tipicamente soddisfano queste proprietà e in molti casi essi sono dei materiali semiconduttori che ben si prestano a fungere da elemento sensibile. Altri materiali come il grafene e le nanoparticelle metalliche giocano anche un ruolo importante. Nel seguito vedremo tre casi in cui delle nanostrutture a semiconduttore vengono applicate in sensori (di gas, di pH e di glucosio) per aumentarne le performances.

La rivelazione della composizione chimica dell’aria è sempre più richiesta, e pertanto lo sviluppo di sensori innovativi di gas attrae sempre maggiore interesse. Le applicazioni spaziano dalla sicurezza industriale e civile (controlli in aeroporti, stazioni), alla salute (controllo dell’espirato, sensori per attacchi di asma) ai trasporti (sensori di ossigeno e di inquinanti, e particolato), passando per integrazioni sempre più richieste in dispositivi portatili (smartphones, elettronica indossabile) e nella domotica (salubrità dell’aria in uffici e case). Nel caso di sensori di gas a trasduzione elettrica (fig. 9), il meccanismo di base della rivelazione consiste nella modifica della resistenza elettrica del materiale sensibile (detto chemiresistor) causata dall’interazione (adsorbimento chimico) tra le molecole dell’analita (ad es., ossido di azoto, NO2 in figura) e la superficie del materiale (nanofogli di ZnO). In un semiconduttore, come lo ZnO o il NiO, il processo di adsorbimento modifica significativamente la resistenza elettrica in quanto “intrappola” molti portatori di carica (elettroni o lacune) in prossimità del sito di adsorbimento e li sottrae al flusso di corrente (I) eventualmente indotto da una differenza di potenziale elettrico applicata ai capi del semiconduttore (tramite i contatti + e –). La variazione della resistenza è correlata alla concentrazione gassosa dell’analita. In una nanostruttura, inoltre, tale variazione è amplificata dall’elevato rapporto superficie/volume, pertanto un semiconduttore nanostrutturato è il candidato ideale per questo tipo di sensori. I nanofogli di ZnO sono nanostrutture a semiconduttore sintetizzate recentemente con metodi a basso costo (deposizione da bagno chimico su substrato di alluminio) che hanno mostrato risultati molto promettenti nella rivelazione di NO2 e CO. L’incremento della resistenza misurata in presenza di concentrazioni anche molto basse di NO2 (fig. 9) permette di sviluppare sensori ad alta sensibilità, in grado di rivelare quantità davvero piccole dell’analita (50 ppb, parti per miliardo, nel caso di nanofogli di ZnO usati come materiale sensibile). Un aspetto cruciale dei sensori è la selettività, cioè la capacità di discernere quale gas si sia adsorbito sulla superficie del materiale sensibile, non solo quale sia la sua concentrazione. Ad esempio, i nanofogli di ZnO hanno dimostrato di essere sensibili anche al monossido di carbonio (CO), sebbene con variazioni della resistenza opposte (al crescere della concentrazione di CO, la resistenza si riduce) e con intensità fortemente dipendenti dalla temperatura. Le dinamiche di adsorbimento tra la superficie di ZnO e le molecole di NO2 o di CO sono diverse e tali che ad alta temperatura (400 °C) il sistema risponde quasi esclusivamente al CO, mentre a bassa temperatura (250 °C) il sistema “sente” molto di più il biossido di azoto (NO2). In questo modo è possibile ottenere un sensore selettivo, giocando sulla temperatura di esercizio e usando opportuni algoritmi di comparazione che elaborano i segnali e, sulla base di relative calibrazioni, riescono a misurare la composizione dell’aria cui è esposto il sensore.

Mentre nei sensori di gas tipicamente la rivelazione si basa su una modifica della resistenza elettrica dell’elemento sensibile, non è sempre possibile misurare tale proprietà in altri casi, come nei sensori di pH dove l’elemento sensibile è immerso in una soluzione liquida, spesso anche molto conduttiva. La misura del pH di una soluzione è effettuata comunemente in vari ambiti (biomedico, alimentare, industriale) e con precisione abbastanza elevata, tuttavia lo sviluppo di questi dispositivi è legato essenzialmente alla loro rigidità essendo molto spesso basati su vetro. Sempre i nanofogli di ZnO hanno mostrato di essere estremamente sensibili anche al pH di una soluzione (fig. 9). In aggiunta, la semplicità della sintesi di questo materiale permette di fabbricarli sopra pressoché qualunque substrato e di combinarli con la tecnologia dei transistori a film sottile per realizzare un sensore di pH interamente supportato da uno strato sottile di materiale polimerico flessibile (poliimmide). Questo riduce i costi senza alterare la capacità di rivelazione di variazioni anche piccole del pH. Il principio di funzionamento del dispositivo, in questo caso, si basa sulla variazione di una corrente (Id) che non attraversa il materiale sensibile ma che scorre su un canale di conduzione tra due contatti del transistore (source e drain). Tale variazione è causata dal diverso effetto di campo elettrico indotto dai nanofogli di ZnO (che fungono da porta di gate) a contatto con soluzioni a diverso pH. Al crescere del pH aumenta la densità di ioni ossidrili (OH) adsorbiti sui nanofogli e questo contribuisce ad innalzare la corrente Id, grazie ad un maggior campo elettrico (legato a Vgs) indotto dai nanofogli sul canale di conduzione attraverso un sottile strato di ossido (ossido di gate). A differenza del sensore di gas, in questo caso, è necessario isolare la corrente elettrica dalla soluzione di cui si vuol misurare il pH e pertanto l’architettura del dispositivo è leggermente più complessa, tuttavia è importante notare che i nanofogli di ZnO, grazie alla loro peculiare struttura, consentono di ottenere una sensibilità ideale di 60 mV/decade di pH, ben superiore a quella raggiunta da altre nanostrutture di ZnO.

Oggi sono oltre 200 milioni i diabetici nel mondo, e questo numero è destinato a raddoppiarsi nei prossimi 20 anni. La gestione di una malattia così comune è cruciale per migliorare non solo la qualità ma anche l’aspettativa di vita dei pazienti. In questo senso la misurazione del livello di glucosio nel sangue (glicemia) rappresenta oggi il mezzo più usato per compensare dall’esterno i livelli ormonali di insulina, e viene operata, spesso dal paziente stesso, attraverso dei sensori di glucosio (glucometri) che determinano la glicemia in una goccia di sangue che il paziente si estrae con un pungidito. Tale operazione viene ripetuta molte volte al giorno, procurando non solo un fastidioso dolore ma esponendo il paziente ad una progressiva perdita di sensibilità ai polpastrelli. Molti sforzi sono stati orientati alla ricerca di soluzioni alternative come la misura del glucosio in altri liquidi biologici, come lacrime o saliva. La concentrazione di glucosio in questi liquidi è però 10 o anche 100 volte più bassa che nel sangue, dunque è necessario sostituire il meccanismo enzimatico (basato sulla glucosio ossidasi, nei glucometri commerciali) e sviluppare un procedimento molto più sensibile. La rivelazione non enzimatica del glucosio permette di misurare concentrazioni anche molto basse di glucosio, e tipicamente si basa sull’uso di metalli nobili o di nanoparticelle. Il nickel è un metallo particolarmente adatto alla rivelazione non enzimatica per via dei suoi stati di ossidazione Ni2+ e Ni3+, che catalizzano l’ossidazione del glucosio in acido gluconico con la raccolta di un segnale elettrico proporzionale alla quantità di molecole di glucosio ossidate (fig. 10). Ottenere nanostrutture di Ni metallico aumenterebbe la sensibilità di questo processo, tuttavia la nanostrutturazione del Ni, come di tanti metalli altamente reattivi, è particolarmente difficile perché venendo a contatto con l’aria si attivano dei processi ossidativi che ne deteriorano le proprietà. Attraverso un processo di sintesi a basso costo è possibile ottenere nanofogli di NiO che vengono ridotti termicamente ad una nanoschiuma di Ni (fig. 10) composta essenzialmente di tantissime sferette metalliche (circa 20 nm in diametro) connesse tra loro in una struttura porosa che ricorda i nanofogli di partenza. Tale nanoschiuma presenta una superficie esposta molto elevata, di circa 25 m2 per grammo ed è particolarmente adatta a realizzare elettrodi, anche flessibili, per la rivelazione non-enzimatica del glucosio ad altissima sensibilità, con una risposta rapida, stabile nel tempo e non affetta da agenti interferenti come l’acido ascorbico, l’urea o l’acetaminofene tipicamente presenti nei liquidi biologici. L’elevata sensibilità, frutto della nanostrutturazione di Ni, permette di misurare concentrazioni di glucosio tanto basse quanto quelle presenti in lacrime o saliva, come dimostrano i primi dispositivi testati con schede microelettroniche industriali di supporto.

Anche i nanofili di silicio sono dei sistemi estremamente promettenti per applicazioni sensoristiche grazie al loro elevatissimo rapporto superficie/volume. Lo stato dell’arte sulle applicazioni nell’ambito della sensoristica dei NWs di silicio vertono soprattutto sulla misura della variazione delle proprietà elettriche del NW nel momento in cui interagisce con l’analita ricercato. Questi sensori sono generalmente realizzati con basse densità di NWs e i dispositivi sono estremamente complessi e costosi, ottenuti con processi non integrabili industrialmente in termini di costi e tempo di realizzazione. La comunità scientifica sta facendo uno sforzo per cercare sensori a basso costo, realizzabili industrialmente con elevata sensibilità e flessibilità del range di rivelazione. Sensori basati sulla variazione a temperatura ambiente della luminescenza dei NWs di Si, erano completamente assenti in letteratura. Sfruttando le proprietà di emissione a temperatura ambiente dei NWs di Si, preparati con l’attacco chimico assistito dai metalli già presentati nella sezione dedicata alla applicazioni in fotonica, è stata realizzata una nuova classe di sensori basati sull’emissione di questi sistemi. In particolare, è stato realizzato un sensore per la proteina C reattiva (CRP) che è una proteina cruciale per i problemi cardiovascolari associati all’infarto coronarico. Per realizzare un sensore selettivo per la CRP, i NWs devono essere funzionalizzati in maniera opportuna per rendere il sensore selettivo. Gli steps di funzionalizzazione sono i seguenti: 1) immersione del campione in una soluzione di 10 μg/ml streptavidina (SA). 2) Immersione del campione in una soluzione di 50 μg/ml di anticorpo biotinato (AB) specifico per la CRP. 3) incubazione del sensore in diverse concentrazioni di CRP per studiarne le performances. Lo schema dei NWs funzionalizzati è riportato in fig. 11 (a). Per la rivelazione viene sfruttato lo spegnimento del segnale di PL dei NWs aumentando la concentrazione di CRP, a causa dell’instaurarsi di fenomeni non radiativi introdotti dalla CRP sulla superficie dei NWs. In fig. 11 (b) è riportato l’andamento del segnale di PL in funzione della concentrazione di CRP ed è chiaramente visibile che si possono osservare ben 6 ordini di grandezza di concentrazioni di CRP. Inoltre, è stato dimostrato che la concentrazione minima di CRP che è possibile rivelare è di 1,6 fM (10–7 μg/ml). Un valore di concentrazione di CRP così basso apre le porte alle analisi non invasive in saliva che rappresentano un cruciale vantaggio per la diagnosi precoce nei pazienti. Un altro aspetto fondamentale per le applicazioni è la selettività del sensore in sangue umano, ricco di una quantità enorme di sostanze che potrebbero limitare fortemente le performances del sensore. Per dimostrare il coretto funzionamento anche in sangue umano, il sensore è stato testato immergendolo in sangue umano con una quantità nota di CRP: 10–2 μg/ml. Come si osserva chiaramente in fig. 11 (b) il punto magenta dell’analisi in sangue umano è identico al valore ottenuto dal sensore immerso nella stessa concentrazione di CRP ma non in sangue, e questo risultato è una forte dimostrazione delle enormi potenzialità di rivelazione del sensore in un contesto medicale applicativo. L’uso principale della CRP nell’attuale contesto medicale è la diagnosi dell’infarto cardiaco in sangue per concentrazioni sopra 3 μg/ml. Come osservato in fig. 11 (b) il sensore a NWs è in saturazione per concentrazioni sopra 1 μg/ml e quindi inutilizzabile per questo tipo di diagnosi. Per rendere il sensore sensibile per concentrazioni elevate di CRP è stata raddoppiata la concentrazione di funzionalizzazione (50 μg/ml di SA e 100 μg/ml di AB) usata per la cattura della CRP. In fig. 11 (c) è riportato il secondo range di rivelazione ottenuto usando 50 μg/ml di SA e 100 μg/ml di AB, e si osserva che il sensore è sensibile fino a concentrazioni di 100 μg/ml di CRP e quindi riesce a rivelare perfettamente i valori cruciali della CRP per l’infarto cardiaco. Abbiamo dimostrato la possibilità di realizzare una nuova classe di sensori basati sull’emissione di luce a temperatura ambiente di NWs di Si. Questo sensore ha dimostrato una forte selettività ed elevata sensibilità, aprendo le porte alla possibilità di un’analisi non invasiva in saliva per il rischio da infarto.

4 Conclusione

Le nanotecnologie per la sensoristica si avvalgono spesso di strutture gerarchiche, dove diverse nanostrutture vengono combinate tra loro in modo da migliorare ulteriormente le prestazioni del dispositivo. Il metodo di sintesi, semplice, sostenibile e di costo ridotto, è cruciale per il successo dell’applicazione. In questo senso non basta offrire un elevato rapporto superficie/volume ma è necessario garantire ottime proprietà fisico-chimiche (elettriche, ottiche, elettrochimiche) necessarie alla rivelazione efficace di una specifica molecola. Notevoli risultati sono stati già ottenuti e qui sono stati riportati solo alcuni esempi recenti. Il campo è in rapida espansione e sono certamente previsti importanti nuovi sviluppi futuri.