Sola scriptura mathematica

Found the original letter of Galilei to Castelli dated December 21st, 1613

Enrico Giannetto


Ritrovata la lettera originale di Galilei a Castelli del 21 Dicembre 1613

All’inizio di agosto del 2018 è stata ritrovata la versione originale autografa della lettera del 21 dicembre 1613 scritta da Galilei a Benedetto Castelli: si trovava, in quattro fogli (sette facciate), nell’archivio delle Early Letters della Biblioteca della Royal Society di Londra, ma erroneamente catalogata come una lettera del 21 ottobre 1613. È stata forse quest’erronea catalogazione a non permettere di riconoscere prima l’importanza storica di questo documento.

L’autore di questa scoperta è Salvatore Ricciardo, collaboratore di ricerca dell’unità locale dell’Università di Bergamo del progetto PRIN “La Scienza e il mito di Galileo in Europa tra il XVII e il XIX secolo”, che ha come coordinatore nazionale Massimo Bucciantini dell’Università di Siena. L’unità locale dell’Università di Bergamo (composta dal coordinatore locale Franco Giudice, da Enrico Giannetto e da Niccolò Guicciardini), occupandosi della ricezione dell’opera di Galilei in Inghilterra nel XVII secolo, ha inviato Salvatore Ricciardo, già dottore e assegnista di ricerca dell’Università di Bergamo seguito da Franco Giudice e da me, a Londra per effettuare ricerche di tutti i possibili rilievi documentali di tale ricezione. Ricciardo, trovata la lettera e compreso che si trattava proprio di quella del 21 dicembre 1613, l’ha sottoposta a Franco Giudice che, a sua volta, ha subito coinvolto Michele Camerota, coordinatore dell’unità locale dell’Università di Cagliari del progetto PRIN, per un’analisi congiunta più dettagliata, che ha portato alla conclusione che si tratta effettivamente dell’originale autografo di Galilei e al suo primo studio da poco pubblicato presso la rivista della Royal Society.

Attraverso i colloqui telefonici subito intercorsi con Franco Giudice, ho potuto subito partecipare al senso di esaltazione di questa stupefacente scoperta.

L’importanza di questo ritrovamento è molteplice. Dal punto di vista filologico, ribalta definitivamente l’edizione critica del 1895 della lettera presentata da parte di Antonio Favaro, che aveva curato l’edizione nazionale di tutte le opere di Galilei. Favaro aveva a disposizione solo degli apografi della lettera, 12 copie manoscritte, e individuò un altro testo come originale, in quanto riteneva che la copia (indicata come Pr) conservata presso l’Archivio Segreto Vaticano, che il 7 febbraio 1615 il domenicano Niccolò Lorini fece circolare e inviò a Roma, contenesse delle falsificazioni utili ad una più facile condannabilità di Galilei: Galilei stesso, infatti aveva disconosciuto quella versione, mandandone, infatti, appena una settimana dopo, un’altra versione a Mons. Pietro Dini per metterla a disposizione del Cardinale Bellarmino del Sant’Uffizio. Sul testo di questa lettera a Castelli iniziò il procedimento del Sant’Uffizio e della Congregazione dell’Indice contro la teoria copernicana e Galilei, il cosiddetto primo processo. Questo si concluse con le condanne del 24 febbraio 1616 delle due principali proposizioni copernicane (sul sole immobile al centro del mondo e sulla terra mobile e non al centro del mondo) di una teoria formalmente eretica, con l’ordine del 25 febbraio di papa Paolo V al Cardinale Bellarmino di ammonire Galilei (come effettivamente avvenne il giorno dopo), con il decreto del 5 marzo della sospensione della pubblicazione del De Revolutionibus di Copernico fino a quando non fossero state censurate le proposizioni condannate.

La copia designata come Pr fu pure pubblicata dallo stesso Favaro. La questione filologica fu ridiscussa da Mauro Pesce che affermò, già dal 1992, che il testo di Pr fosse quello originale, ma senza avere un riscontro autografo. Ora, l’autografo della Royal Society mostra che il testo Pr costituisce effettivamente una copia della redazione originale con le seguenti precisazioni: l’autografo presenta cancellazioni e aggiunte fra una riga e un’altra, di cui il testo Pr non dà affatto conto.

Il testo della Royal Society, ora indicato come RS, è stato confrontato con altri scritti galileiani coevi per una comparazione calligrafica che mostra effettivamente che si tratta di un autografo galileiano. Tuttavia, è l’analisi critica interna del testo che mostra RS quale prima redazione originale, in quanto riesce a spiegare le varianti delle altre 12 copie. Rispetto al testo Pr, il confronto teoricamente implica due possibilità interpretative: Pr è una copia del testo originale di Galilei, al momento in cui non conteneva ancora le cancellature e le aggiunte ora riscontrate nel testo RS e che Galilei ha apposto solo dopo per perfezionare e smussare le sue parole; oppure (possibilità più remota), la copia Pr è stata condotta sul testo originale RS di Galilei senza però tener conto delle cancellature e delle aggiunte già presenti, effettivamente per aggravare la posizione di Galilei.

In ogni caso, le mere trascrizioni della lettera non possono restituirci la tensione e il travaglio che le modifiche, le cancellature e le aggiunte, avranno comportato a Galilei, e solo una visione diretta o una foto/scansione può ridarci.

L’importanza del ritrovamento di questo autografo, al di là della questione filologica della priorità del testo, sta nei suoi contenuti, nelle sue “lezioni” originarie che chiariscono maggiormente la prospettiva di Galilei. Non sono molte le differenze significative che implichino sfumature semantiche fondamentali. La più importante è questa. Nella prima stesura di RS si ha:
“Onde, si come nella Scrittura si trovano molte proposizioni false quanto al nudo senso delle parole, porte in cotal guisa per accomodarsi all’incapacità del numeroso vulgo, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla stolida plebe è necessario ch’i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari perché sieno sotto cotali parole stati proferiti” (corsivo mio).

Ma subito vediamo che “false” è cancellato ed il tutto è cambiato così:
“Onde, si come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son porte in cotal guisa per accomodarsi all’incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla stolida plebe è necessario ch’i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari perché sieno sotto cotali parole stati proferiti” (corsivo mio).

Galilei, cioè, prima afferma la falsità delle proposizioni bibliche prese alla lettera, ovvero nella loro interpretazione letterale, e poi smussa la sua affermazione dicendo che le proposizioni bibliche non sono false, ma solo appaiono diverse dal vero e quindi invece sono vere. Riconoscere la falsità logica delle proposizioni bibliche dal punto di vista letterale avrebbe certamente messo maggiormente in discussione lo statuto epistemologico di verità della Bibbia. Già William Shakespeare nel 1602, sull’onda della lettura de La cena de le ceneri di Giordano Bruno, in un famoso verso dell’Hamlet, recitato da Amleto a Ofelia nella scena seconda del secondo atto, dopo aver formulato alcuni dubbi legati alla rivoluzione copernicana (dubitando del fatto che le stelle siano di fuoco e che il sole si muova nel cielo: Doubt Thou the stars are fire./ Doubt that the sun doth move./ ), si era limitato ad esprimersi dubitativamente nella forma di un ossimoro: Doubt truth to be a liar (Dubita che la verità sia menzognera), salvando comunque solo l’amore (But never doubt I love). Chiaramente, in qualsiasi momento Galilei abbia fatto le correzioni, qualsiasi testo abbia ricevuto Castelli (senza correzioni o con le correzioni) più che un cambiamento di idee indicano senz’altro il tentativo di Galilei di produrre un documento che gli porti meno problemi con la Chiesa e il Sant’Uffizio. Questo comporta la riscrittura di alcuni dettagli della storia del processo del 1616.

Tuttavia, l’importanza del ritrovamento di questo autografo sta ancora di più nel fatto di rendere necessaria una riconsiderazione delle tesi di questa lettera di Galilei che ha cambiato la storia del copernicanesimo e così di tutta la rivoluzione scientifica che ha portato al costituirsi della scienza moderna.

Già nella lettera a Castelli è presente la metafora della Natura come libro, su cui si basa anche la sua ermeneutica biblica. Come ha mostrato Pietro Redondi, questa metafora atomistica deriva da Giordano Bruno. Ha ragione Redondi a considerare anche la metafora, poetica e matematica (poematematica), galileiana del “libro della Natura”, come di origine atomistica. L’influenza di Giordano Bruno su Galilei per l’ermeneutica biblica è stata discussa approfonditamente a proposito della lettera alla granduchessa Cristina, ma a maggior ragione quest’influenza de La cena de le ceneri (Dialogo IV) si deve rilevare per la lettera a Castelli.

La nuova ermeneutica della Bibbia, che Galilei riprende dal quarto libro de La cena de le ceneri di Giordano Bruno, non si basa solo sul rifiuto dell’interpretazione data dal Magistero della Chiesa e sul rifiuto dell’interpretazione letterale di Lutero, su una sorta di “principio dell’accomodamento” che considera la Bibbia come un testo religioso-morale e mai scientificamente veritiero (che Galilei riprende anche nella lettera alla granduchessa Cristina, ricordando la formulazione del cardinal Baronio che la Bibbia insegna “come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”), con la contestualizzazione storica e culturale della rivelazione della Bibbia, con una sua storicizzazione. Per inciso, la formula del cardinal Baronio che sintetizza la posizione di Bruno e Galilei è quella oggi accettata dalla Chiesa, come delineata nella Dei Verbum del 1965.

Per Galilei, però, non si tratta semplicemente di un secondo libro, la Natura, che stia accanto al primo, quello della Scrittura, come stanno insieme l’Antico e il Nuovo Testamento come rileva Blumenberg, e che sia di base per l’interpretazione della Scrittura, come nella Dei Verbum del 1965 si afferma che l’Antico va interpretato solo sulla base del Nuovo.

Bisogna, infatti, ricordare che anche il Nuovo Testamento, con Marcione, era nato originariamente come un’alternativa all’Antico e non come qualcosa che si affiancasse a questo o semplicemente lo precedesse per l’interpretazione.

Questa “eresia” bruniana e galileiana va molto oltre quella luterana nel contestare l’autorità del Magistero della Chiesa, altrimenti ribadita dal Concilio di Trento, va molto oltre quella del libero esame individuale della Bibbia della “sinistra” della Riforma, perché implica l’impossibilità di una esegesi certa della Bibbia per la polisemia del linguaggio naturale, la falsità letterale della Bibbia e la possibilità di un’interpretazione corretta (almeno dei passi riguardanti la Natura) come data solo ai nuovi filosofi, per Galilei sperimentali e matematici. I nuovi filosofi della Natura si costituiscono come una nuova comunità detentrice di una rivelazione, come quella dei nuovi satelliti di Giove (scoperti da Galilei nel 1610) che, secondo il salmo 19, versetto 1, disegnano nuovi cieli che narrano una più grande gloria di Dio.

Ciò significa che, per Galilei, la Chiesa non solo, di fatto, non è ispirata dallo Spirito Santo nell’interpretazione biblica, fino ad allora fallace nel sostenere la verità scientifica della Bibbia, ma anche che l’ispirazione, per i passi riguardanti la Natura, non basterebbe mai senza la conoscenza sperimentale e matematica della Natura. Si può comprendere il senso del famoso passo del capitolo X, versetti 12-13, del libro di Giosuè, dove viene detto “fermati, o sole”, come da intendersi letteralmente o meno solo se si conosce la filosofia della Natura (e infatti Galilei, nella lettera a Mons. Dini, ripresa anche in quella alla granduchessa Cristina, proporrà una nuova interpretazione letterale basata sulla rotazione del Sole che trascina con sé i pianeti in un moto di rivoluzione, dedotta dall’osservazione delle macchie solari).

Per Galilei, si tratta di una nuova rivelazione di Dio nella Natura, attraverso il “linguaggio matematico”, attraverso il cannocchiale e altri strumenti meccanici, una nuova rivelazione, che sostituisce la prima e che di fatto sconvolge la religione nella sua forma precedente. Si tratta, invero, dell’impossibilità di una esegesi biblica indipendente dalla nuova filosofia, dalla scienza, si tratta della dipendenza dell’esegesi e della teologia dalla nuova scienza della Natura.

Inoltre, non si tratta più soltanto della libertà di filosofare, dell’indipendenza della filosofia dalla fede o dalla teologia, ma di una nuova filosofia libera dalla stessa tradizione filosofica che lo ha preceduto.

La metafora del libro della Natura di Galilei deve essere compresa nel suo più proprio contesto storico: Galilei ha bisogno di questa metafora, non solo nel contrasto con la Chiesa sull’interpretazione della Bibbia, ma anche e soprattutto per riproporre nell’ambito della filosofia della Natura quanto fatto da Martin Luther nell’ambito del Cristianesimo, e cioè il superamento dell’autorità della tradizione ermeneutica della Bibbia attraverso il rimando al testo originale: per Galilei, il rimando al testo originale del libro della Natura serve per liberarsi non solo della tradizione ermeneutica della Bibbia propria della Chiesa di Roma, ma anche per liberarsi di tutta la tradizione filosofica ermeneutica della Natura precedente, soprattutto aristotelica, con il rinvio a un principio equivalente al luterano sola scriptura in riferimento a un altro libro scritto da Dio, quello della Natura, da interpretare con univocità matematica (sola scriptura mathematica Naturae).

Questo significa che tutta la discussione che Galilei fa a partire dalla metafora del libro della Natura non è una mera, momentanea e strumentale incursione di Galilei in questioni teologiche ed esegetiche, ma che i contenuti discussi nella lettera a Castelli costituiscono il fondamento della nuova scienza della Natura, libera da qualsivoglia autorità religiosa o filosofica speculativa.

Ma forse c’è anche di più. Per Galilei, la Natura, tutta corporea e materiale anche a livello del mondo celeste, poteva essere considerata espressione di un Logos divino: Galilei, per comprendere questa rivelazione, riproponeva, implicitamente, la distinzione stoica, ripresa anche nell’ambito della teologia cristiana, fra Logos proferito (prophorikòs) e Logos proferente (endiàthetos). Sicuramente è singolare che, nelle lettere a Benedetto Castelli e a Cristina di Lorena (che in qualche modo era una risposta alla lettera di Bellarmino a Foscarini) in cui Galilei appunto ne parlava, nel discutere del Verbo divino non facesse alcun riferimento all’incarnazione in Gesù, parlasse di bestemmie nell’attribuzione di piedi, mani e occhi a Dio (il Verbo non aveva assunto in Gesù la natura umana, e quindi proprio piedi, mani e occhi?), e invece il riferimento fosse alla Natura come rivelazione del Verbo. Questo motivo, a mio avviso, si comprende solo in base al fatto che l’universo come espressione-rivelazione di Dio era proprio quanto tematizzato da Bruno, radicalizzando il pensiero di Cusano. Al di là dei rischi panteistici di questa prospettiva teologica nell’enfasi del riferimento, già stoico e in Bruno, del Logos all’universo più che al Cristo, tale punto di vista faceva sì che la scienza della Natura stessa si ponesse, nei termini bruniani, come una nuova rivelazione che richiedeva gli scienziati come esegeti della stessa Bibbia.

Galilei dice che la Natura e la Scrittura (biblica) procedono dal Verbo Divino: sarebbe piuttosto strano che l’attenzione di Galilei a ogni singola parola in queste lettere, che costituiscono una sorta di sua autodifesa, rispetto alle accuse che portarono al primo richiamo del 1616, non si sia soffermata sulla scelta di questo verbo. Procedere è il verbo che ancora oggi viene usato nel credo cattolico derivato dal simbolo niceno per definire la relazione dello Spirito Santo con il Padre e il Figlio nella vita intra-divina. Gesù non viene mai nominato da Galilei come manifestazione del Verbo Divino. Questo fa pensare che Galilei sviluppi qui, seppure ambiguamente, la teologia della Natura di Bruno, in cui appunto Dio si manifesta nella Natura e non in Gesù. Sembrerebbe che Galilei non sappia rinunciare in questo testo a manifestare, seppure non del tutto esplicitamente, le sue idee e al sottile piacere di una sfida e di una provocazione nascosta dei suoi interlocutori ecclesiastici.

Così, il nuovo principio ermeneutico del libro della Natura, sola scriptura mathematica Naturae, diventa anche il nuovo principio ermeneutico della stessa Bibbia. La Volontà di Dio che si esplica nella Natura e nella Bibbia si può comprendere solo con le opere sperimentali e matematiche. Questa è la prospettiva che costituisce l’inizio della scienza moderna sperimentale, della fisica e della cosmologia moderne nel loro tentativo di svincolarsi da qualsiasi autorità religiosa e filosofica puramente speculativa.