The birth, the christening, and the first ninety years of neutrino

F. Guerra, N. Robotti


La nascita, il battesimo, e i primi novanta anni del neutrino

L’atto ufficiale di nascita del neutrino è certamente lla celebre lettera aperta dattiloscritta (fig. 1) del 4 dicembre 1930 che Wolfgang Pauli (1900–1958), giovane e brillante fisico teorico allora professore a Zurigo, fece recapitare ai partecipanti (“Liebe Radioaktive Damen und Herren”) di una conferenza sulla radioattività che avrebbe avuto luogo in quei giorni a Tubinga.

Riportiamo, in traduzione libera dal tedesco conciso ed elegante di Pauli, le prime righe della lettera:
“… a causa della ‘falsa’ statistica dei nuclei N- e Li-6 come pure dello spettro continuo del decadimento beta, ho fatto ricorso ad un rimedio disperato per salvare il teorema di scambio della statistica e la legge di conservazione dell’energia. Ho assunto quindi la possibilità che nel nucleo possano esistere particelle elettricamente neutre, che chiamerò neutroni, di spin 1/2, che obbediscono al principio di esclusione, che si distinguono dai quanti di luce, in quanto non viaggiano con la velocità della luce.”

Per comprendere a pieno le ragioni fisiche profonde di questo atto disperato, occorre riferirsi alla visione della costituzione del nucleo allora imperante.

Dopo la scoperta dell’elettrone nel 1897 da parte di Joseph John Thomson (1856–1940), del nucleo dell’atomo nel 1911 e del protone nel 1919 da parte di Ernest Rutherford (1871–1937), la struttura nucleare acquista una formulazione molto semplice e intuitiva. Un nucleo di numero atomico Z e numero di massa A è considerato come uno stato legato costituito da A protoni, che contribuiscono all’intera massa, e A–Z elettroni che schermano la carica dei protoni, in modo che la carica totale nucleare si riduca a Z.

Così l’idrogeno ha un nucleo costituto da un solo protone, mentre il nucleo di elio, particella alfa, è costituito da quattro protoni e due elettroni, fino all’isotopo più abbondante dell’uranio, Z=92, A=238, che ha 238 protoni e 146 elettroni.

Alla fine degli anni Venti del Novecento, questa semplice concezione della struttura nucleare entra in crisi profonda, per una molteplicità di ragioni strettamente collegate tra di loro.

Nella lettera di Pauli le motivazioni del suo gesto sono sintetizzate in un doppio ordine di problemi, quello della “falsa statistica” per i nuclei di azoto N e dell’isotopo con A=6 del litio, Li-6, e quello dello spettro continuo nel decadimento radioattivo beta.

Richiamiamo brevemente prima i problemi della “falsa statistica”, seguendo la magistrale relazione di Samuel Goudsmit (1902–1978) al Congresso di Fisica Nucleare svoltosi a Roma nell’ottobre del 1931. Il titolo ufficiale della relazione è “Present difficulties in the theory of hyperfine structure”, ma Orso Mario Corbino nella sua introduzione al Convegno l’aveva presentata sotto il titolo più comprensivo di “Spettroscopia e momenti nucleari”, che meglio riflette l’effettivo contenuto della relazione.

In base ai principi generali della Meccanica Quantistica, se si ammetteva che tutti i nuclei atomici fossero composti da un insieme di protoni ed elettroni, poiché i protoni hanno spin 1/2 e obbediscono, come gli elettroni, alla statistica di Fermi-Dirac, si poteva dedurre che i nuclei dovevano seguire la statistica di Fermi-Dirac, oppure quella di Bose-Einstein a seconda se il numero totale di particelle che li componevano era dispari oppure pari.

Seguendo questa regola, il nucleo di azoto, che si supponeva contenere un numero dispari di particelle elementari (14 protoni e 7 elettroni) avrebbe dovuto ubbidire alla statistica di Fermi-Dirac. Invece, come si era stabilito sperimentalmente studiando lo spettro a bande rotazionale e lo spettro Raman della molecola di azoto, il nucleo di azoto risultava avere spin 1 e seguire la statistica di Bose-Einstein, “come se il nucleo contenesse un numero pari di particelle’’, secondo l’osservazione di Goudsmit nella sua relazione. Poiché il numero di protoni era pari, mentre quello degli elettroni era dispari, era come se gli elettroni nucleari non contribuissero alla statistica del nucleo. Una situazione analoga si aveva per il Li-6, il cui nucleo avrebbe dovuto contenere 6 protoni e 3 elettroni, ma risultava di spin 1 e quindi di statistica Bose-Einstein.

Questa situazione di “falsa statistica” era davvero drammatica, tanto più agli occhi di Pauli, che nel 1925 aveva contribuito in maniera determinante alla formulazione delle statistiche quantistiche, e che avrebbe ricevuto il Premio Nobel per la Fisica 1945 proprio “for the discovery of the Exclusion Principle, also called the Pauli Principle”.

Anche se Pauli non ne parla esplicitamente nella sua lettera, il modello nucleare a protoni ed elettroni mostrava all’epoca anche serie discrepanze nell’interpretazione delle strutture iperfini della spettroscopia atomica. Anche questo fatto doveva fare una enorme impressione su Pauli, che era stato il primo a suggerire nel 1924 che le strutture iperfini fossero in parte da imputare all’interazione tra il momento magnetico nucleare e la nube elettronica atomica.

Il secondo argomento avanzato da Pauli riguarda lo spettro continuo dell’energia degli elettroni emessi dai nuclei radioattivi nel corso dell’emissione beta. Tramite delicate misure calorimetriche effettuate a Cambridge nel 1927 da Charles D. Ellis e William A. Wooster, dopo un lungo periodo di acceso dibattito, si era alla fine pervenuti alla conclusione inequivocabile che la continuità dello spettro beta era una proprietà del nucleo che si disintegrava e non un effetto secondario. Quindi le particelle beta uscivano direttamente dal nucleo con energie tutte diverse, in apparente contraddizione con il fatto che, nonostante questa differenza di energia tra gli elettroni emessi durante uno stesso processo di decadimento beta, alla fine esisteva sempre un unico tipo di prodotto radioattivo, in quanto la legge di decadimento, per una data specie atomica, era sempre la stessa, per cui tutti i nuclei della stessa specie decadevano nello stesso modo.

Pur di risolvere questo problema, il grande Niels Bohr al Congresso di Roma, seguendo una sua linea già delineata in lavori precedenti, era disposto addirittura ad assumere nelle disintegrazioni nucleari un abbandono della legge della conservazione dell’energia.

È chiaro che una eventuale adozione delle idee di Bohr, fortemente favorita dall’autorità del personaggio, avrebbe avuto un effetto sconvolgente sul futuro dello sviluppo della fisica.

Si comprende allora lo sforzo “disperato” di Pauli di salvare la situazione con l’introduzione della nuova particella “neutrone”.

I neutroni di Pauli sarebbero intervenuti in numero paritario con gli elettroni, risolvendo quindi in un sol colpo tutti i problemi legati alla “falsa” statistica, e anche le difficoltà della struttura iperfine. Inoltre, nel corso del decadimento beta si poteva assumere che l’elettrone beta venisse espulso insieme con un neutrone. Le due particelle si potevano dividere l’energia disponibile. Solo l’energia dell’elettrone era visibile a livello calorimetrico, mentre il neutrone sfuggiva all’osservazione a causa della sua debolissima interazione con la materia. Quindi era perfettamente comprensibile come, pur in presenza di una energia determinata disponibile nel decadimento, dovuta alla differenza dei livelli energetici tra il nucleo beta instabile di partenza e quello prodotto, l’energia osservata, che era quella del solo elettrone, poteva avere una distribuzione continua.

Gli unici problemi relativi alla struttura del nucleo di Pauli riguardavano le leggi di interazione dei costituenti nucleari. Pauli postulava una interazione del neutrone tramite un suo ipotetico momento magnetico, ma chiaramente il problema sarebbe stato oggetto di studio più approfondito nel seguito. Era comunque chiaro che la presenza di costituenti elementari leggeri nel nucleo era a priori una fonte di difficoltà.

Pauli non pubblicò la sua proposta. Ne parlò però ancora nel corso dell’88esimo Meeting dell’Associazione Americana per il Progresso delle Scienze, tenutosi a Pasadena dal 15 al 20 giugno del 1931. Purtroppo il contenuto del suo intervento non fu pubblicato e le sue note non si sono salvate.

Invece, durante la sua relazione al Convegno di Roma, Samuel Goudsmit, che aveva partecipato al meeting di Pasadena, si fece portavoce dell’idea del neutrone di Pauli, nell’ambito delle difficoltà connesse alla presenza degli elettroni nel nucleo. Per una singolare coincidenza Pauli arrivò al convegno proprio mentre Goudsmit stava pronunziando il suo nome nella relazione. Infatti, Pauli era sbarcato a Napoli di ritorno da un viaggio negli USA, che aveva incluso Pasadena, ed era arrivato in ritardo alla relazione di Goudsmit il 13 ottobre. Pauli non prese la parola al Convegno di Roma, né figura nelle foto ufficiali. Però la sua firma è presente insieme con molte altre nel retro di una delle foto.

Questa era la prima volta che l’ipotesi del neutrone di Pauli veniva proposta in un contesto internazionale, e pubblicata. Va detto, comunque, che questa ipotesi, mentre da un lato risolveva il problema dello spettro continuo dei raggi beta e i problemi di tipo sperimentale sollevati dallo spin dell’elettrone nucleare, dall’altro lato non solo lasciava completamente aperti i problemi del confinamento dell’elettrone nel nucleo, ma estendeva questi stessi problemi alla nuova particella, in quanto anche questa avrebbe dovuto essere legata in un qualche modo all’interno del nucleo.

Non a caso l’ipotesi nell’immediato non riscosse successo, e neppure venne ulteriormente discussa durante tutto il Convegno di Roma. Ad esempio, lo stesso Goudsmit, dopo averla pubblicamente esposta, non la fece propria. Addirittura Peter Debye, nella relazione conclusiva del Convegno (non pubblicata sugli Atti, ma conservata in riassunto nell’Archivio dell’Accademia d’Italia, presso l’Accademia dei Lincei) non fece nessun accenno a questa ipotesi, mentre invece enfatizzò la posizione di Bohr.

Nei mesi successivi al Convegno di Roma, la fisica nucleare ebbe uno sviluppo formidabile, tanto che l’anno 1932 può essere considerato come un vero e proprio annus mirabilis. Basti ricordare la scoperta del neutrone (James Chadwick, febbraio 1932), la realizzazione della prima disintegrazione nucleare con protoni accelerati (John D. Cockroft (1897–1967) e Ernest T. S. Walton (1903-1995), aprile 1932), la scoperta del positrone (Carl D. Anderson (1905–1991), agosto 1932, successivamente confermata da Patrick Blackett e G. P. S. Occhialini nella primavera del 1933), e la scoperta del deuterio, isotopo dell’idrogeno di massa 2, il cui nucleo venne chiamato anche deutone o diplon (Harold C. Urey (1893–1981), F. C. Brickwedde e G. M. Murphy).

Di particolare rilievo per la nostra panoramica sulla storia del neutrino è la scoperta del neutrone di Chadwick.

Pochi anni prima, nel 1930, Walther Bothe e Herbert Becker avevano scoperto che tramite il bombardamento del berillio, e altri nuclei leggeri, con particelle alfa provenienti da sorgenti intense, si otteneva una radiazione molto penetrante di natura allora sconosciuta. Questi risultati erano stati presentati al Congresso di Roma nel 1931. Successivamente, Frédéric e Irène Joliot-Curie a Parigi avevano fatto una scoperta sensazionale. Nell’attraversare le varie sostanze, la radiazione penetrante aveva la capacità di proiettare protoni e altri nuclei, facendogli raggiungere energie sorprendenti. Questa radiazione penetrante era stata interpretata in un primo momento come costituita da radiazione elettromagnetica, sia da parte di Bothe e Becker che dai Joliot-Curie.

Il successo di Chadwick è da porsi in relazione a due fatti molto importanti. Innanzitutto, il neutrone, inteso come particella di massa uguale a quella del protone e di carica zero, era di casa a Cambridge, essendo stato addirittura ipotizzato da Ernest Rutherford molti anni prima nella sua Bakerian Lecture nel 1920, e quindi poco dopo la scoperta del protone.

Aiutato poi dalla grande efficienza dei suoi dispositivi, Chadwick riuscì a superare l’errore dei Joliot-Curie di interpretare la proiezione di protoni, e altri nuclei, come dovuta a una sorta di effetto Compton da parte di fotoni. La conclusione di Chadwick era che si trattava di un nuovo costituente nucleare, di massa simile a quella del protone, e di carica nulla.

La scoperta del neutrone, come sappiamo, avrebbe avuto conseguenze strategiche imponenti negli anni a venire, dalla scoperta della radioattività indotta da neutroni e degli effetti dei neutroni lenti, alla base del Premio Nobel a Fermi nel 1938, fino alla scoperta della fissione e allo sfruttamento dell’energia nucleare.

Comunque all’inizio del 1932 esistono due particelle dette neutrone. Quella leggera e ipotetica di Pauli, nata per disperazione, nel tentativo di porre rimedio alle difficoltà della statistica e del decadimento beta, e quella pesante e ben concreta di Chadwick. La coesistenza dei due nomi identici per particelle completamente differenti certamente dà luogo ad equivoci.

Un caso eclatante è costituito dalla discussione susseguente alla relazione di Fermi, dal titolo “La physique du noyau atomique”, svolta il 7 luglio 1932 a Parigi nell’ambito del Congrès International d’Électricité. La relazione di Fermi è tutta centrata sulle difficoltà degli elettroni nucleari, e mostra significative aperture verso l’ipotesi del neutrone di Pauli. Alcune richieste di chiarimento da parte di L. Wertenstein, che ha usato la parola neutrone nel senso di Chadwick, obbligano Fermi a precisare: “Questi neutroni non sono quelli che sono stati scoperti, ma avrebbero una massa molto inferiore”. Tra l’altro risulta quindi chiaro che il nuovo nome “neutrino” non era stato ancora coniato da parte di Fermi fino al Congresso di Parigi del luglio 1932.

Dopo la scoperta di Chadwick, a causa anche della lunga e autorevole tradizione del concetto e della parola al Cavendish Laboratory, è evidente che il neutrone di Pauli è destinato a fare un passo indietro, almeno come nome.

Ma una ben più seria minaccia incombe sulla particella di Pauli.

Per una profonda ragione fisica, legata alle proprietà di simmetria quantistica a livello nucleare, il neutrone di Chadwick si appresta a rendere del tutto inefficace la prima delle due motivazioni, la falsa statistica, che hanno reso necessario il rimedio disperato di Pauli.

Infatti, invece di compensare gli effetti negativi degli elettroni nucleari aggiungendo nuove particelle nel nucleo, diviene possibile eliminare del tutto gli effetti negativi eliminando proprio gli elettroni stessi, e sostituendoli con lo stesso numero di neutroni. Naturalmente ora il numero di protoni deve essere uguale alla carica nucleare Z.

Così ora la particella alfa sarebbe costituita non da quattro protoni e due elettroni, ma da due protoni e due neutroni, fino al nucleo di uranio, costituito da 92 protoni e 146 neutroni.

Dopo la scoperta del neutrone di Chadwick, l’azione di Enrico Fermi si esplica con grande efficacia, sia nel trovare un nuovo nome molto espressivo per il neutrone di Pauli, sia per confermargli un ruolo determinante nella teoria del decadimento beta.

Abbiamo visto che alla Conferenza di Parigi nel luglio 1932 Fermi usa ancora la parola “neutrone” per la particella di Pauli, come si vede anche dal relativo rapporto, dal titolo “Lo stato attuale della Fisica del nucleo atomico”, pubblicato in italiano sulla rivista del CNR La Ricerca Scientifica nel mese di agosto 1932.

Non vi è alcun dubbio che fu Fermi ad introdurre il nuovo termine “neutrino”, come è ricordato per esempio da un commento di Pauli alla relazione di Werner Heisenberg al Congresso Solvay svoltosi a Bruxelles nell’ottobre del 1933, in cui viene affermato “Pour le distinguer des neutrons lourds, M. Fermi a proposé le nom ‘neutrino’ ” (fig. 2). Ma Pauli conosceva la proposta di Fermi ben prima del Congresso Solvay. Infatti, in una lettera a Patrick Blackett del 19 aprile 1933, dopo aver commentato positivamente la conferma della scoperta del positrone, Pauli aggiunge: “In this moment I come back to my old idea of the existence of a “neutrino” (that means a neutral particle with a mass comparable with that of the electron; the Italian name (in contrast to neutron) is made by Fermi).”

Mentre nel linguaggio internazionale la finale della parola “neutrone” viene associata all’idea di particella (qui neutra), seguendo l’analogia di elettrone, protone, fotone, è solo in italiano che la parola neutrone, con la sua finale, suggerisce anche un apparente significato di essere grosso, essere pesante. Mentre “neutrino” suggerisce il significato opposto, in quanto diminutivo. Quindi Fermi, con notevole arguzia, inventò il termine “neutrino” lavorando sulla opposizione tra “neutrone” (l’oggetto neutro pesante, scoperto da Chadwick nel 1932), e “neutrino” (l’oggetto neutro leggero, introdotto da Pauli nel 1930). È incredibile l’enorme fortuna avuta da questo termine che ebbe origine da un semplice gioco di parole.

Subito dopo la scoperta di Chadwick del neutrone la cancellazione degli elettroni dal nucleo prosegue con grande rapidità. Prima Werner Heisenberg si rende conto che, con l’introduzione delle due particelle pesanti, protone e nucleone, la struttura nucleare può essere descritta all’interno della nuova meccanica quantistica. Tenuto conto che i protoni necessariamente si respingono tra di loro a causa della repulsione coulombiana, Werner Heisenberg introduce un modello nucleare che coinvolge un complesso sistema di forze che devono provvedere a mantenere confinato il nucleo. Nel sistema delle forze entra anche una forza di scambio, ben familiare nella descrizione del legame chimico omopolare in meccanica quantistica. Ettore Majorana (fig. 3) è visitatore nell’Istituto di Fisica Teorica di Heisenberg a Lipsia, e si accorge che è possibile apportare un notevole miglioramento alla costruzione di Heisenberg. L’impostazione di Majorana è esemplare, basata su pure considerazioni di natura fenomenologica, tra cui la necessità di assicurare al nucleo una densità pressoché costante. L’unica forza attrattiva tra protoni e neutroni è una forza di scambio, modificata rispetto a quella di Heisenberg, con l’esclusione di altre forze scelte ad hoc. La forza di scambio di Majorana è profondamente diversa da quella di Heisenberg, in quanto è attrattiva, invece che repulsiva, e tratta diversamente lo scambio delle osservabili nucleari, posizioni e spin dei nucleoni.

La rapidità e l’efficacia con cui Majorana costruisce il suo modello nucleare a Lipsia è sconcertante, tanto che ha fatto sorgere in alcuni storici l’idea che Majorana avesse pronto il suo modello, subito dopo la scoperta del neutrone, e prima ancora di recarsi a Lipsia. Una delle caratteristiche più importanti del modello nucleare di Majorana è una semplice dimostrazione del fatto che la struttura nucleare più stabile è la particella alfa, invece che il deutone, come nella teoria di Heisenberg, in pieno accordo con i dati sperimentali.

Comunque Heisenberg si accorge immediatamente della validità della proposta di Majorana, e la adotta in pieno, dandone una descrizione esauriente nella sua relazione al Congresso Solvay del 1933, in cui Fermi è uno dei partecipanti.

Il modello di Heisenberg-Majorana rimuove completamente la necessità di avere elettroni nucleari. La meccanica quantistica è in grado di descrivere perfettamente il nucleo atomico. Tutte le difficoltà della “falsa statistica” lamentate da Pauli si dissolvono all’istante.

Anche se una delle motivazioni è scomparsa, tuttavia l’ipotesi del neutrino di Pauli acquista una importanza ancora maggiore, e permetterà a Fermi, pochi mesi dopo il Congresso Solvay, di risolvere completamente il problema del decadimento beta.

Non si tratta più di capire solo come è che il raggio beta emesso ha uno spettro continuo, ma si tratta anche di capire l’origine stessa dell’elettrone beta, poiché non esistono più elettroni nel nucleo.

Fermi adotta uno schema generale di teoria quantistica dei campi, dove le particelle possono essere create e distrutte, usando in maniera essenziale il neutrino di Pauli.

Nel corso del decadimento beta un neutrone nucleare si trasforma in un protone, andando ad occupare uno stato energeticamente disponibile, secondo le leggi probabilistiche della meccanica quantistica. Contestualmente, sono creati un elettrone e un neutrino che sfuggono dal nucleo dividendosi tra di loro l’energia disponibile. In questo modo Fermi introduce una nuova interazione, che nel seguito sarà chiamata interazione debole, espressa in una precisa forma quantitativa con una funzione Hamiltoniana che coinvolge quattro fermioni. Ricordiamo che Fermi aveva dato contributi importanti alla teoria quantistica dei campi, nello studio dell’elettrodinamica quantistica. Anche l’idea della formazione di elettrone e neutrino, non preesistenti nel nucleo, al momento del decadimento beta, trae origine, nell’intuizione di Fermi, dalla situazione analoga nel caso elettrodinamico, dove il fotone non è preesistente nell’atomo ma viene creato (e distrutto) nelle transizioni quantistiche elettroniche.

La teoria di Fermi è concettualmente molto semplice ed elegante. Il suo schema è il prototipo di tutte le teorie quantistiche di campo in uso per descrivere le interazioni tra particelle elementari.

Il neutrino di Pauli trova la sua realizzazione più pregnante nella teoria di Fermi del decadimento beta. Può essere utile ricordare un episodio estremamente significativo.

Fermi rende nota la sua teoria nel dicembre del 1933, inviando per la pubblicazione in rapida sequenza una Lettera per La Ricerca Scientifica, un articolo per Il Nuovo Cimento, e un articolo per la prestigiosa rivista tedesca Zeitschrift für Physik. Ne parla naturalmente nel corso dei suoi contatti scientifici, in particolare a Roma. Quindi la sua diffusione nel mondo scientifico avvenne immediatamente, attraverso i resoconti di quanti ne erano venuti a conoscenza, o attraverso lo stesso Fermi, o per trasmissione indiretta. Ad esempio Pauli seppe della teoria di Fermi prima di Natale del 1933, tramite Felix Bloch, che a quel tempo era visitatore a Roma. Bloch, infatti, il 24 dicembre 1933 aveva scritto a Gregor Wentzel, professore di Fisica Teorica all’Università di Zurigo: “Fermi ha fatto una bella teoria del decadimento beta, introducendo il neutrino, la quale riproduce così semplicemente i fatti sperimentali, che io credo fortemente in essa. La massa del neutrino dovrebbe essere esattamente zero, o in ogni caso molto più piccola di quella dell’elettrone”.

Wentzel a sua volta aveva riportato la notizia a Pauli, che era al Politecnico Federale di Zurigo. Interessante il commento di Pauli, espresso in una lettera a Heisenberg del 7 gennaio 1934: “Sarebbe proprio acqua per il nostro mulino!”.

Finalmente il “neutrone” di Pauli, dopo aver acquisito il suo nuovo nome indipendente e significativo di neutrino, affermava la sua validità fisica nell’ambito di una ben precisa teoria quantitativa.

Per inciso, conviene fare qui una piccola precisazione terminologica. La particella di Pauli, emessa nel decadimento beta e chiamata neutrino da Fermi, nell’attuale denominazione delle particelle è in realtà un antineutrino (elettronico).

Diamo anche un breve commento sull’opinione diffusissima, anche in sedi molto prestigiose, e quasi universalmente nota e ritenuta per vera, che Fermi intendesse annunziare la sua teoria del decadimento beta in una lettera a Nature, ma il manoscritto fu respinto dall’Editor di quella rivista in quanto “conteneva speculazioni astratte troppo remote dalla realtà fisica da poter essere di interesse per il lettore”. Ovviamente non c’è nessuna traccia di un tale manoscritto né della lettera dell’Editor. Anzi in tutti i numeri di Nature dell’epoca, prima della rubrica “Letters to the Editor”, viene esplicitamente specificato:
“The Editor does not hold himself responsible for opinions expressed by his correspondents. Neither can he undertake to return, nor to correspond with the writers of, rejected manuscripts intended for this or any other part of Nature.”

Quindi, a meno che non venga trovato il manoscritto o una qualche comunicazione da parte di Nature, l’asserito rifiuto di pubblicare la Lettera di Fermi deve ritenersi originato da un qualche malinteso. Per una singolare coincidenza, proprio il 23 dicembre 1933, Guido Beck, allora a Copenhagen presso l’Istituto di Bohr, pubblica su Nature una breve nota, in cui si afferma, portando via acqua dal mulino di Pauli secondo lo spirito prevalente in quella città:
“Non vi è comunque al momento nessuna necessità di assumere la reale esistenza di un neutrino, e l’assunzione della sua esistenza sarebbe anche una complicazione non necessaria della descrizione del processo del decadimento beta.”

La teoria di Fermi del decadimento beta è una teoria ricca di possibilità, dovute alle simmetrie di una teoria di campo. Per esempio, la radioattività indotta da particelle alfa, scoperta nel gennaio del 1934 dai Joliot-Curie, può avere una semplice interpretazione che fa uso della stessa Hamiltoniana di interazione. In un decadimento beta in cui vengono emessi positroni, si ha la trasformazione di un protone in neutrone, con la conseguente creazione di un positrone e un neutrino, che vengono espulsi dal nucleo suddividendosi probabilisticamente l’energia disponibile.

Con la teoria di Fermi, il neutrino di Pauli viene definitivamente consegnato alla storia, in cui vivrà da affascinante protagonista.

Naturalmente, il neutrino di Fermi è descritto nello schema generale delle particelle afferenti all’originaria equazione relativistica di Paul Dirac. Neutrino e antineutrino sono particelle diverse.

Più o meno contemporaneamente alla teoria di Fermi, ma in un lavoro pubblicato solo alcuni anni dopo su Il Nuovo Cimento nel 1937, dal titolo “Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone", Ettore Majorana propone una descrizione delle particelle neutre di spin 1/2 tramite una formulazione completamente diversa. Il neutrino di Majorana è identico alla sua antiparticella. Nonostante il tono dimesso della proposta, dove la parola neutrino compare solo in un paio di righe, tuttavia la sua importanza è notevole, per le sue conseguenze fisiche rilevanti anche a livello cosmologico.

Molto significativamente, riportiamo alcune nette opinioni espresse da Bruno Pontecorvo, nella sua brillante relazione dal titolo “The infancy and youth of neutrino physics: some recollections”, svolta nel 1982 a Parigi per l’International Colloquium on the History of Elementary Particle Physics. Pontecorvo non esita a nominare “Pauli: a giant”, subito seguito da “Fermi: one more giant”, ma subito dopo parla di un “third giant - Ettore Majorana”. I tre personaggi quindi, in accordo con l’opinione di Pontecorvo, sono stati quelli che hanno foggiato l’essenza fisica del neutrino nelle sue linee fondamentali (fig. 4).

Dopo l’opera iniziale dei “tre giganti” la storia del neutrino si sviluppa in una serie ininterrotta di passi mirabili, che si estende nel massimo interesse fino all’epoca attuale. Non è certo possibile coprire in maniera esauriente questa storia nei limiti di questo articolo di natura generale.

Per fortuna la storia del neutrino ricopre attualmente un interesse pienamente commisurato all’interesse delle ricerche fisiche sviluppate. In particolare noi rimandiamo alla recente Conferenza Internazionale “History of the Neutrino”, tenutasi a Parigi nel settembre del 2018, per una trattazione completa da parte di specialisti dei vari settori i cui contenuti, disponibili anche sul sito riportato, sono così sommarizzati:

Invention, Discovery, Second Family, Three Families, Pontecorvo and Oscillations, Solar Neutrinos, Reactor Neutrinos, Atmospheric Neutrinos, Astrophysical Neutrinos, Accelerator Neutrinos, Neutral Currents, Neutrino Masses, Dirac or Majorana.

Vogliamo però toccare alcuni punti importanti, come diretta continuazione di quanto già esposto, anche se in forma non esaustiva.

Una delle caratteristiche più importanti che il neutrino lascia ancora come non accertate è la sua possibile natura di particella di Dirac, o di particella di Majorana. Naturalmente il problema si pone solo per i neutrini massivi, perché neutrini a massa nulla sia di Dirac che di Majorana hanno equazioni e comportamenti fisici completamente equivalenti. Ma nel caso della presenza di una massa si possono avere significative differenze.

Consideriamo per esempio il doppio decadimento beta. Nel momento in cui è possibile, secondo Fermi, che un neutrone nel nucleo si trasformi in un protone liberando una coppia elettrone-antineutrino, allora anche il processo doppio è possibile con il risultato che vengono liberati due elettroni e due antineutrini. Naturalmente, anche in questo caso, lo spettro elettronico è continuo. Se invece viene coinvolto un neutrino di Majorana, allora è possibile che il primo neutrino liberato sia riassorbito da un neutrone con la conseguente liberazione di un successivo elettrone. Complessivamente si ha ancora la trasformazione di due neutroni in due protoni nel nucleo, ma con la liberazione dei soli due elettroni. Il processo quindi si presenta come un processo a due corpi identici, e il principio di conservazione dell’energia e della quantità di moto assicura che i due elettroni vengono sparati con velocità uguali ed opposte e con la stessa energia. Quindi il segnale rivelato in un doppio decadimento beta senza neutrini sarebbe quello monocromatico dei due elettroni con energia uguale alla metà di quella resa disponibile nel decadimento. Naturalmente la probabilità di doppio decadimento beta, con o senza neutrini, è estremamente ridotta. Nel caso particolare dei decadimenti senza neutrini la probabilità risulta anche essere proporzionale al quadrato della massa del neutrino emesso e riassorbito.

Nel 1939, dopo soli due anni dalla pubblicazione del neutrino di Majorana, il fisico teorico di Harvard Wendell H. Furry (1907–1984), in un articolo su Physical Review dal titolo “On Transition Probabilities in Double Beta-Disintegration”, perviene alla conclusione, espressa con molte cautele, secondo cui “The results obtained with the Majorana theory indicate that it is not at all certain that double β-disintegration can never be observed.” Si apre allora un lungo periodo di intense ricerche, sia di natura teorica che sperimentale, sulla possibiltà di rivelare l’esistenza del doppio decadimento beta senza neutrini, e quindi della effettiva concretezza fisica del neutrino di Majorana. Le ricerche hanno ancora grande attualità come rivelano per esempio i recenti esperimenti CUORE, GERDA II, MAJORANA, LEGEND, KamLAND-ZEN, nEXO, SNO+, AMoRE, CANDLES, SuperNEMO, NEXT, DCBA, PANDAX-III, ZICOS, MOON, per i quali rinviamo alla letteratura specializzata (vedi anche l’articolo di rassegna di Serguey T. Petcov “The Nature of the Neutrino (Dirac/Majorana) and Double Beta Decay with or without Neutrinos”).

Osserviamo anche che per la natura del neutrino le denominazioni Dirac o Majorana vengono quasi sempre poste in alternativa. Ma le cose potrebbero anche essere più complesse, se la Natura avesse scelto di usare entrambe le particelle in condizioni e fenomeni diversi.

Facciamo anche un rapido cenno al ruolo del neutrino, e delle interazioni deboli, nella produzione dell’energia termonucleare di fusione nel Sole e nelle altre stelle, già individuato nelle sue caratteristiche essenziali da Carl von Weizsäcker e Hans Bethe fin dalla fine degli anni Trenta. Questo richiamo ci servirà nel seguito anche nel contesto della rivelazione fisica del neutrino.

Nella fusione nucleare, in genere, né le interazioni deboli né il neutrino giocano necessariamente un ruolo primario. Per esempio, nel fenomeno più semplice, la cattura radiativa dei neutroni, un neutrone viene attirato su un nucleo di idrogeno (protone), formando un nucleo di deuterio e liberando energia sotto forma di un raggio gamma.

La situazione però è completamente diversa per le reazioni termonucleari nel Sole, dove sono coinvolte complesse catene di reazioni nucleari, rese possibili dalle elevatissime temperature, nel corso delle quali, come risultato complessivo, quattro protoni iniziali alla fine vanno a fondersi in una particella alfa, liberando due positroni e due neutrini, con una forte emissione di energia.

Quindi devono essere creati anche i neutroni necessari per la fusione, e questo avviene, con un meccanismo nucleare, sempre basato sull’interazione di Fermi, per cui in sostanza un protone si trasforma in un neutrone con la liberazione di un positrone e di un neutrino, molto simile a quello coinvolto nella radioattività artificiale prodotta dal bombardamento di particelle alfa su nuclei leggeri, scoperta dai Joliot-Curie nel 1934.

La ragione per cui interviene in maniera essenziale anche una interazione debole è che occorre che siano creati anche i neutroni necessari alla fusione, a differenza di una fusione da laboratorio, come la cattura radiativa, in cui naturalmente conviene fornire neutroni già esistenti da far fondere con i protoni.

Ricordiamo che Hans Bethe è stato insignito del Premio Nobel per la Fisica 1967 “for his contributions to the theory of nuclear reactions, especially his discoveries concerning the energy production in stars”.

Complessivamente quindi il Sole è anche una enorme sorgente di neutrini, mentre le sorgenti naturali costituite dalle sostanze beta radioattive, oppure dai futuri reattori nucleari, sono sorgenti di antineutrini. Sono sempre le interazioni deboli di Fermi, che a causa delle loro caratteristiche di teorie quantistiche di campo permettono una spiegazione semplice di fenomeni diversi.

Per quanto riguarda il problema della possibile osservazione sperimentale dei neutrini, una grande importanza, dal punto di vista storico, riveste la proposta radio-chimica avanzata da Bruno Pontecorvo.

Dopo le sue note peripezie, da Pisa, a Roma, a Parigi, negli Stati Uniti, e infine, per il momento, nel Canada, Bruno Pontecorvo dall’inizio del 1943 si trova coinvolto nel progetto segreto Anglo-Canadese-(Americano) Tube alloys (Montreal, Chalk River), con l’obiettivo principale della progettazione e costruzione di un grande reattore a uranio naturale e acqua pesante.

Durante questo periodo canadese, certamente stimolato dalla prossima disponibilità del reattore, Pontecorvo comincia a pensare al problema della rivelazione dei neutrini. Il 19 maggio 1945 scrive una nota dal titolo molto significativo “On a method for detecting free neutrinos”, sotto forma di rapporto segreto PD-141 (fig. 5) del National Research Council del Canada. Questa nota non è stata mai menzionata nel seguito da Pontecorvo nei suoi articoli scientifici e autobiografici, anche perché il metodo originariamente proposto è stato migliorato in un nuovo rapporto segreto PD-205 dell’anno successivo.

Nella nota originaria PD-141, Pontecorvo si propone di dimostrare che “l’osservazione sperimentale di un processo beta inverso non è fuori questione”, e suggerisce un metodo “che potrebbe rendere possibile l’osservazione sperimentale”. Naturalmente, l’effettiva emissione di un elettrone positivo o negativo, quando il neutrino viene assorbito nel processo beta inverso, non è rilevabile in pratica, tuttavia “la radioattività del nucleo prodotto può essere ricercata e studiata come una indicazione del processo beta inverso prodotto dal neutrino”. La parte essenziale di questo metodo è che gli atomi radioattivi prodotti devono avere proprietà chimiche diverse da quelle degli atomi irradiati. Per cui egli suggerisce che “è possibile con le consuete tecniche radiochimiche di estrarre da un volume irradiato dell’ordine di molti metri cubi gli atomi radioattivi prodotti di nota vita media”. Naturalmente devono essere verificate alcune condizioni essenziali. Innanzitutto il materiale da irradiare deve essere a basso costo, perché sono coinvolti molti metri cubi. Inoltre, il nucleo prodotto dall’assorbimento del neutrino deve essere radioattivo con una vita media abbastanza lunga, di almeno parecchi giorni, perché l’accumulazione del nucleo prodotto e le separazioni chimiche richiedono tempo.

Pontecorvo riconosce anche che le masse del nucleo originale e di quello finale devono avere valori vicini, in modo che le sezioni d’urto per il processo beta inverso siano apprezzabili, come conseguenza della teoria di Fermi.

La proposta originaria di Pontecorvo è quella di utilizzare il tetracloruro di carbonio, in modo che, per assorbimento di un neutrino sull’isotopo 35 del cloro e la conseguente emissione di un positrone, verrebbe prodotto zolfo 35, che è radioattivo, con una vita media di 87.1 giorni, e potrebbe permettere la rivelazione degli elettroni di decadimento.

Un metodo radiochimico simile era stato proposto alcuni anni prima anche da H. R. Crane, ma Pontecorvo non ne fa menzione. Per una qualche misteriosa ragione il rapporto PD-141 viene declassificato solo diciannove anni dopo nel 1964.

Il 20 novembre 1946, Pontecorvo migliora notevolmente la sua proposta in un rapporto PD-205, che fortunatamente viene declassificato meno di due anni dopo. In questo modo il metodo radiochimico viene reso disponibile all’intera comunità scientifica.

In questo secondo rapporto Pontecorvo sposta la sua attenzione sull’isotopo 37 del cloro, che è presente al 24% nel cloro naturale. La reazione di assorbimento beta inversa del neutrino produce ora argon 37, che decade poi nel cloro 37 per cattura sul nucleo di un elettrone atomico sull’orbita K, con una vita media di 34 giorni.

La separazione del nuclide radioattivo prodotto è molto più semplice per l’argon nel secondo metodo, che non per lo zolfo del primo metodo.

Quindi alla fine degli anni Quaranta abbiamo un momento focale dove le attese del tipo di quelle per esempio nitidamente espresse ancora nel 1949 da Luis Alvarez in un rapporto No. UCRL-328 (University of California, Berkeley) nella forma “it is unfortunate that at the present time there is no convincing experimental proof that neutrinos exist”, si incontrano con la proposta realistica di metodi sperimentali tesi a questo obiettivo, come quella cloro-argon avanzata da Bruno Pontecorvo.

Naturalmente, nel nuovo arricchito contesto, la saga del neutrino continua, ed è tuttora in pieno sviluppo. Ricordiamone alcuni punti caratteristici. Oggi sappiamo che ci sono tre tipi di neutrino, associati con l’elettrone e due altre simili particelle più pesanti chiamate $\mu$ e $\tau$. Vengono indicati con $\nu_{e}$, $\nu_{\mu}$ e $\nu_{\tau}$, rispettivamente. Per ciascuno esiste l’antiparticella. Di questi, il neutrino introdotto da Fermi è l’antineutrino elettronico.

Ricordiamo, in particolare, che Leon M. Lederman, Melvin Schwartz e Jack Steinberger hanno vinto il Premio Nobel per la Fisica 1988 “for the neutrino beam method and the demonstration of the doublet structure of the leptons through the discovery of the muon neutrino”. La scoperta del $\nu_{\mu}$ risale al 1962.

Dopo una lunga serie di tentativi, nel 1956 Clyde L. Cowan e Frederick Reines sono riusciti a rivelare sperimentalmente gli antineutrini emessi dal decadimento beta dei prodotti di fissione in un reattore nucleare, con un metodo profondamente diverso da quello proposto da Pontecorvo, che in realtà può funzionare solo con neutrini.

Nell’esperimento di Cowan e Reines, gli antineutrini provenienti dal reattore andavano a colpire un bersaglio costituito da 200 litri di acqua, sostanza ricca di protoni, diviso in due contenitori. Il rivelatore, costituito da 1400 litri di scintillatore liquido, era diviso in tre contenitori alternati con i due contenitori di acqua.

Lo scintillatore fornisce un segnale di luce al passaggio di particelle cariche: nel caso specifico si tratta di elettroni presenti nello scintillatore stesso che vengono urtati da fotoni. La rivelazione del positrone e del neutrone era data da una coppia di segnali: uno immediato, quello dovuto ai due fotoni gamma prodotti nell’annichilazione del positrone con un elettrone del mezzo, e l’altro ritardato, dovuto ai fotoni gamma emessi nella diseccitazione di un nucleo di cadmio (dissolto nell’acqua) che cattura il neutrone.

I risultati ottenuti da Cowan e Reines sono stati riconosciuti con il Premio Nobel per la Fisica solo nel 1995 “for pioneering experimental contributions to lepton physics”, attribuito per metà a Martin L. Perl “for the discovery of the tau lepton”, nel 1975, e a Frederick Reines “for the detection of the neutrino”, appunto con il famoso esperimento del 1956. Purtroppo Clyde L. Cowan nel frattempo era scomparso nel 1974.

I neutrini solari sono stati scoperti sperimentalmente da Raymond Davis jr. nel 1967, con il metodo radio-chimico cloro-argon, originariamente proposto da Bruno Pontecorvo nel 1946. Il Premio Nobel per la Fisica nel 2002 è stato diviso a metà tra Raymond Davis jr. e Masatoshi Koshiba “for pioneering contributions to astrophysics, in particular for the detection of cosmic neutrinos”.

Una delle caratteristiche più sconcertanti del neutrino è costituita dalla sua peculiare aderenza al livello profondo quantistico delle particelle elementari. A causa di piccole differenze di massa per i neutrini, è possibile un nuovo fenomeno denominato oscillazione dei neutrini. Sappiamo oggi che i neutrini associati ai diversi leptoni carichi possono infatti trasformarsi l’uno nell’altro. Questo fenomeno di oscillazione fu proposto da Bruno Pontecorvo nel lontano 1957 tra neutrino e antineutrino e da Ziro Maki, Masami Nakagawa e Shoichi Sakata nel 1962 tra neutrino elettronico e neutrino muonico, allora appena scoperto. La matrice di mescolamento degli autostati di massa dei neutrini è nota come matrice PMNS (Pontecorvo-Maki-Nagakawa-Sakata).

I neutrini prodotti nei vari processi nucleari, che abbiamo ricordato esistere in tre tipi, non sono autostati della massa, ma loro sovrapposizioni. Per puro effetto quantistico le funzioni d’onda sovrapposte oscillano con leggeri sfasamenti, per cui nella propagazione dei neutrini fisici assistiamo ad una continua lentissima trasformazione da un tipo a un altro. Il fenomeno è fisicamente importante, e permette in particolare di risolvere un aspetto paradossale riscontrato nella intensità dei neutrini solari, che risulta sperimentalmente inferiore a quella prevista dai modelli ben affermati di fusione termonucleare nel Sole.

Le oscillazioni dei neutrini sono un campo di ricerca molto vivace, strettamente connesso al problema della misura delle masse dei neutrini di vario tipo.

Il Premio Nobel 2015, conferito a Takaaki Kajita and Arthur B. McDonald “for the discovery of neutrino oscillations, which shows that neutrinos have mass”, segna uno dei passaggi della nuova saga delle oscillazioni del neutrino, aperta nell’ambito della storia generale del neutrino.

Vediamo che un piccolo disperato atto iniziale ha dato origine ad una lunga serie di grandi risultati teorici e sperimentali, che non pare sminuire di interesse nel corso degli anni.