Henrietta Swan Leavitt: the lady who found the tool to decipher white nebulae

Massimo Capaccioli


Henrietta Swan Leavitt: la signora che trovò lo strumento per decifrare le nebulose bianche

1 “Galassia sì che fa dubbiar ben saggi”

Alla fine del secolo XIX, sia la fisica che l’astronomia stavano vivendo una di quelle ricorrenti e feconde stagioni di crisi nelle quali, essendosi incrinati i paradigmi correnti per l’affiorare di fatti genuinamente nuovi e/o l’insorgere di inattese contraddizioni, si dibatte, si ragiona, si osserva e si sperimenta per costruirne di nuovi. Tra i problemi sul tappeto spiccava, per le sue pregnanti implicazioni cosmologiche, quello riguardante la natura e il ruolo delle “nebulose bianche”: oggetti dall’aspetto diffuso, a stento distinguibili sul velluto nero del cielo notturno, che rimangono sostanzialmente privi di colore anche se guardati attraverso telescopi potenti. Sollevato a metà Settecento dalle riflessioni filosofiche di Immanuel Kant e complicato dalle contraddittorie posizioni assunte via via da William Herschel sull’onda di pionieristiche osservazioni, il quesito era se questi batuffoli di luce diffusa, catalogati in numero crescente all’aumentare dell’apertura degli strumenti d’osservazione, rappresentassero altrettanti “universi isola” piuttosto che semplici addensamenti di materia all’interno di un unico pervasivo sistema stellare, la Via Lattea (nel cui centro, tra l’altro, ancora si riteneva dovesse trovarsi il Sistema Solare). L’acceso dibattito tra i partigiani delle due tesi era animato da argomentazioni qualitativamente simili a quelle che avevano nutrito per due millenni lo scontro tra i (pochi) eliocentristi e i (molti) geocentristi: un’autentica guerra di ragione e di religione tra chi, fidandosi delle apparenze, teneva per vera (e in qualche modo “necessaria”) la rassicurante centralità dell’uomo e coloro i quali postulavano invece un comportamento equanime della natura (e del creatore, se del caso), senza figli e figliastri. Spalleggiati dai più autorevoli filosofi e dai teologi, sin dall’antichità classica i primi ebbero il sopravvento sugli spauriti avversari sinché i risultati delle osservazioni telescopiche della Luna, di Giove e di Venere, condotte a Padova da Galileo Galilei tra il 1609 e il 1610, non minarono alla base i postulati aristotelico-tomisti su cui si reggeva la tesi geocentrica. Un colpo ben assestato, capace di spostare l’ago della bilancia nella direzione di una cosmologia copernicana, ma ancora non mortale. Per sanzionare la vittoria del modello eliocentrico del mondo elaborato dall’astronomo polacco e pubblicato nel 1543 nel “De revolutionibus orbium coelestium” bisognava raccogliere le prove sperimentali che la Terra si muove e il Sole sta. Queste vennero prima dalla scoperta dell’aberrazione della luce da parte dell’inglese James Bradley (1728) e poi dalla misura della parallasse annua ad opera del tedesco Friedrich Wilhelm Bessel (1838), arrivata tardivamente, a giochi ormai fatti, ma indispensabile sia a tranquillizzare gli animi ancora esasperati da secoli di lotte ideologiche, sia a fornire un metro rigoroso col quale campionare le distanze siderali.

Qualcosa di simile successe, a cavallo tra Otto e Novecento, riguardo al “grande dibattito” sulla natura delle nebulose. Gli argomenti contrari alla tesi degli universi isola (a partire da un’improvvida generalizzazione delle scoperte di William Huggins, ca. 1860, effettuate analizzando spettroscopicamente la luce delle nebule alla maniera di Robert Kirchhoff a Heidelberg, e dal caso paradigmatico della supernova apparsa nel 1885 sul nucleo della galassia M31, scambiata per una nova classica, diecimila volte più flebile) avevano finito per favorire una visione egemonica della Via Lattea, tanto più rassicurante in quanto il censimento stellare effettuato dall’olandese Jacobus Kapteyn a Gröningen e pubblicato nel 1922 confermava la condizione privilegiata dell’uomo rispetto alla collocazione nella Galassia. Tant’è vero che l’irlandese Agnes Clerke, un’influente autodidatta specializzatasi in storia dell’astronomia, già nel 1905 poteva serenamente sentenziare: “Nessun pensatore competente, il quale abbia davanti a sé l’insieme delle evidenze disponibili, potrebbe oggi sostenere – è lecito affermarlo con certezza – che esistano nebulose di rango comparabile alla Via Lattea”. I fatti parevano darle ragione; ma in effetti nessuna delle evidenze raccolte sino a quel momento poteva essere interpretata senza adottare “ragionevoli” ma “questionabili” ipotesi. Mancava insomma una prova robusta, necessaria a convincere gli scettici trincerati a loro volta dietro fenomeni che rilevavano la peculiarità delle nebulose bianche.

Né l’esercito dei sostenitori di un unico sistema di stelle, né i partigiani dei molti mondi immaginati da Kant possedevano l’arma vincente per porre fine alla disputa sinché sulla scena non comparve un’oscura “calcolatrice” impiegata presso l’Osservatorio dell’Università di Harvard, Henrietta Swan Leavitt (fig. 1). La sua scoperta che le stelle variabili Cefeidi potevano essere usate come metro per misurare le distanze ben oltre il raggio di azione della parallasse, pubblicata nel 1912 come Circolare no. 173 dell’Harvard College Observatory, consentì ai connazionali Harlow Shapley e Edwin Powell Hubble di dimostrare che il Sole è molto lontano dal centro della Via Lattea e che quest’ultima è soltanto una di innumerevoli galassie sparpagliate nel cosmo. Ma andiamo per ordine.

2 La scala delle distanze cosmiche

Il modello di universo di Tolomeo, durato sino a Copernico e oltre, contemplava una Terra immobile circondata dalle sfere delle stelle erranti (πλάνητες άστέρες), fatte di etere e ordinate radialmente secondo il valore decrescente della velocità angolare apparente: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. Poiché, con l’eccezione di Luna e Sole, le distanze planetarie erano sconosciute, nell’assemblare il suo complesso orologio celeste Claudio Tolomeo (100-175 d.C. circa) le scelse in modo da evitare sovrapposizioni e allo stesso tempo minimizzare il volume complessivo: un’operazione arbitraria ma del tutto neutra in relazione all’obiettivo dell’astronomo alessandrino, che era di riprodurre le posizioni angolari dei corpi celesti e non la struttura tridimensionale del sistema. Questo modello del mondo attribuiva alla sfera delle stelle fisse, cioè al volume complessivo del κόσμος, un raggio tipicamente di qualche decina di migliaia di raggi terrestri, ridicolmente piccolo se si pensa che la distanza di α Cen, la stella più vicina al Sole, è di 6,5 miliardi di raggi terrestri.

A partire dal 1543, con l’introduzione di un modello eliocentrico del mondo ad opera del polacco Nicolò Copernico, l’intera questione subì una radicale revisione. La sola ipotesi che il centro dei moti celesti fosse il Sole rendeva possibile stimare con sufficiente accuratezza le distanze planetarie relative alla separazione media tra Terra e Sole, assunta come unità di misura (vedi l’approfondimento nel box). Fu grazie a questo nuovo approccio e al pregiato data-base di misure astronomiche messo insieme dal danese Tycho Brahe che nel 1619 il tedesco Giovanni Keplero poté scoprire empiricamente la costanza del rapporto tra il quadrato del tempo impiegato da un pianeta a percorre la propria orbita ellittica (periodo siderale $P$) e il cubo dell’asse maggiore $a$ dell’orbita medesima: $P^2 /a^3 = k$, con $k =$ costante. Questa relazione, nota come terza legge o legge armonica, diede a Isaac Newton un banco di prova per validare la sua ipotesi sulla forma della forza gravitazionale. Il problema delle distanze planetarie era dunque ridotto a quello di trovare il valore di $k$, ossia della distanza metrica della Terra dal Sole, o ancora (e più comodamente, considerato che di giorno la luce abbagliante del Sole, diffondendosi nell’atmosfera, cancella tutti i comodi riferimenti stellari) la distanza tra la Terra e un qualunque corpo orbitante attorno al Sole. Lo strumento per farlo era noto concettualmente sin dall’antichità classica, ed era stato usato da Ipparco di Nicea (200-120 a.C. circa) per rideterminare la distanza della Luna. Si tratta di misurare l’angolo $\pi$ opposto alla base nota $b$ di un triangolo rettangolo di altezza $d$ pari alla distanza tra la Terra e, per esempio, il pianeta Marte. Per valori piccoli, l’angolo di parallasse è semplicemente $\pi = b/d$ radianti.

Siccome, per ragioni pratiche, la base può essere lunga al più quanto il diametro della Terra $2R_T$, è facile vedere che, nella migliore delle ipotesi, la parallasse diurna di Marte, ossia lo scostamento differenziale della posizione del pianeta rispetto allo sfondo delle stelle “fisse” per due osservatori che puntino simultaneamente il corpo celeste dagli estremi opposti di una base terrestre lunga (linearmente) $2R_T$, è dell’ordine un primo d’arco. Un valore paragonabile alla massima risoluzione dell’occhio umano ma non del telescopio, introdotto in astronomia da Galilei nel 1609 e perfezionato, nella configurazione ottica ideata da Keplero nel 1611, con l’invenzione del micrometro oculare da parte dell’inglese William Gascoigne intorno al 1640. Grazie a queste innovazioni tecnologiche, nel 1672 Giovanni Domenico Cassini, chiamato dal Re Sole a dirigere l’Osservatorio di Parigi, poté determinare la parallasse di Marte all’epoca di un’opposizione perielica, quando la distanza del pianeta rosso dalla Terra è minima. Per rendere la base $b$ quanto più lunga possibile, aveva spedito un collaboratore, il francese Jean Richer, alla Caienna, nella Guaiana francese, distante 7000 km da Parigi, costringendo il poveretto a soggiornare in quel luogo infernale il tempo necessario a determinare le coordinate geografiche indispensabili a fissare il valore di $b$. Combinando le misure di posizione di Marte ottenute da Richer con quelle raccolte da lui medesimo a Parigi, Cassini ottenne la parallasse di Marte (25’’) e da quella la distanza della Terra dal Sole: 21600 raggi terrestri, pari a circa 140 milioni di chilometri, appena il 7% inferiore al valore attualmente accettato (1 UA = 149597870,7 km). Un brillante risultato, confermato dalle misure di parallasse effettuate in Inghilterra da John Flamstead, primo astronomo reale, leggermente meno accurate perché fatte da un unico luogo sfruttando la rotazione terrestre. C’è da dire, però, che forse si trattò di un caso fortunato, a giudicare dall’enorme dispersione delle determinazioni dell’Unità Astronomica eseguite con vari metodi sino al 1760 (vedi fig. 3). La questione assillava a tal punto Edmund Halley, amico e collaboratore di Newton, da spingerlo nel 1715 ad ammonire i colleghi astronomi sulla necessità di irrobustire il risultato impiegando un altro classico metodo di misura, quello fondato sul transito di Venere sopra il disco del Sole: metodo che egli stesso aveva concettualmente migliorato senza però poterlo mettere in pratica, perché il primo transito disponibile si sarebbe verificato nel 1761, troppo tardi per lui (morì ottantacinquenne nel 1746). Toccò ai francesi Jean-Baptiste Delambre e Jérôme Lalande tirare le fila delle osservazioni effettuate durante il transito del 1769. Essi ottennero un valore dell’Unità Astronomica quasi coincidente con quello oggi adottato dall’Unione Astronomica internazionale, con il Sistema Solare che prendeva le giuste dimensioni.

Insomma, a metà settecento, il cosmo s’era enormemente ampliato rispetto a quello immaginato ancora all’epoca di Copernico, quando il Sole, con una distanza dalla Terra stimata in $1200R_T = 780000$ km, appariva appena 5,2 volte più grande del nostro pianeta e il guscio delle stelle fisse veniva collocato alla distanza eliocentrica di $20000R_T$, uguale al raggio della sfera siderale stimato da Aristarco, da Tolomeo e dall’astronomo arabo Al Battani (circa 850-929). Appena due secoli dopo, nel 1760 il Sole era diventato 110 volte più grande della Terra, giustificando così il suo ruolo dominante; e grazie alle osservazioni di Galilei le stelle avevano preso abbondantemente il largo in un cielo reso profondo dal telescopio: “È infatti la GALASSIA nient’altro che una congerie di innumerevoli Stelle, disseminate a mucchi; ché in qualunque regione di essa si diriga il cannocchiale, subito un’ingente folla di Stelle si presenta alla vista, delle quali parecchie si vedono abbastanza grandi e molto distinte; ma la moltitudine delle piccole è dei tutto inesplorabile”. La cosmologia aveva dunque cambiato soggetto e scala: non si trattava più di accertare la topologia e i princìpi che governano il Sistema Solare (semmai di affinare misure e concetti), bensì di intendere la natura del mondo siderale, troppo a lungo relegato a puro involucro da astronomi e filosofi per mancanza di indizi, e insieme ad esso quella Galassia che, dice Dante nel XIV canto del Paradiso, “fa dubbiar ben saggi”. Il problema da risolvere era nuovamente quello di misurare la distanza delle stelle, ovviamente fuori tiro della parallasse diurna e per il momento anche di quella annua, basata cioè sul raggio dell’orbita terrestre (22mila volte maggiore di $R_T$ e quindi capace di raggiungere, a parità d’errore, distanze quattro ordini di grandezza più grandi). Una possibile soluzione, fondata sulla presunzione che le stelle fossero oggetti di egual natura del Sole (ma nessuno lo aveva ancora dimostrato), contemplava la possibilità di confrontare la luminosità di un astro lontano con quella della nostra stella, postulando la conservazione del flusso: un’ipotesi sorretta da semplici considerazioni geometriche in uno spazio euclideo, trasparente e, dobbiamo aggiungere oggi, statico. L’idea è questa. Immaginiamo di avere una sorgente situata a distanza unitaria e indichiamo con $\Phi_0$ il suo flusso luminoso. Se la portassimo a distanza $d$, il flusso che misureremo sotto le ipotesi elencate sopra sarebbe: $\Phi_d = \Phi_0 /d^2$. Questa relazione può essere utilmente impiegata per dedurre la distanza a partire da misure fotometriche, a patto che si operi su sorgenti uguali (standard) e si sappia come misurare accuratamente il flusso. Per esempio, per soddisfare alla prima condizione il grande William Herschel, nell’analizzare i dati del suo star gauging, fece l’ipotesi che le stelle fossero tutte uguali al Sole, consapevole che si trattava di una scorciatoia; per soddisfare alla seconda applicò, come altri prima e dopo di lui, un metodo di confronto con una stella brillante assunta a standard.

Nel 1847 entrò in funzione il Grande Leviatano, un telescopio di 180 cm di apertura realizzato da William Parsons, terzo conte di Rosse, nella sua proprietà in Irlanda: uno strumento incredibilmente potente per quei tempi che permise di osservare le strutture di alcune nebulose. Gli splendidi disegni di Lord Rosse misero in evidenza, per esempio, la struttura a spirale presente in alcune nebulose tra quelle elencate nel suo libro nero dei sosia dal cacciatore di comete francese Charles Messier. Suggestivi dettagli che fecero pendere nuovamente la bilancia a favore degli universi isola. Ma nel 1885 il diavolo volle metterci la coda. Come abbiamo già ricordato, il 20 agosto 1885 l’astronomo tedesco Ernst Hartwig, impiegato all’Osservatorio imperiale di Tartu in Estonia, si accorse della presenza di una nuova stella quasi coincidente con il nucleo della nebulosa M31 in Andromeda. Ci volle poco a convincersi che si trattava di una nova: come da copione, dopo aver fatto la sua fulminea apparizione l’astro infatti cominciò ad affievolirsi sinché scomparve. Assumendo dunque la sua associazione fisica a M31 e l’appartenenza alla famiglia delle stelle nove, si poteva sperare di usarla per determinare la distanza della nebulosa da un confronto con stelle nove di distanza nota. Ma non ce n’era nessuna, sinché una nova apparsa nella costellazione di Perseo nel 1901 non offrì a Jacobus Kapteyn e Hugo von Seeliger il destro per una avventurosa stima della sua distanza, basata su ipotesi azzardate e sull’uso di strumenti nuovi tra cui l’effetto Doppler. Il confronto con la nova in Andromeda diede poi per M31 una distanza notevolmente minore del raggio stimato per la Via Lattea, del tutto ortogonale alla tesi degli universi isola. Un risultato brillante ma minato da un presupposto errato; la pretesa che la nova in Andromeda fosse della medesima natura delle altre nove galattiche. Ci sarebbero voluti oltre trent’anni prima che Walter Baade e Fritz Zwicky postulassero l’esistenza di supernove così brillanti da rendersi visibili anche a distanze enormi.

È a questo punto che interviene la scoperta di miss Leavitt.

3 Una fragile roccia

Figlia di George Roswell Leavitt, pastore congregazionalista, Henrietta Swan nacque il 4 luglio 1868 nella storica cittadina di Lancaster, Massachusetts, prima di sette figli (di cui due morti in tenera età). La madre, anche lei Henrietta Swan (cognome da nubile Kendrick), si occupava della casa e della prole. Nel complesso, una famiglia borghese con radici nel vecchio ceppo coloniale dei Padri Pellegrini. “Miss Leavitt aveva ereditato in una forma in qualche misura addolcita le virtù severe dei suoi antenati puritani”, avrebbe scritto nel suo necrologio l’amico e collega Solon I. Bailey nel 1922. “Ella prese la vita seriamente. Possedeva un forte senso del dovere, della giustizia e della lealtà […] Fu membro devoto del suo intimo cerchio familiare […] profondamente coscienziosa e sincera nel suo attaccamento alla sua religione e alla chiesa”.

Pochi anni dopo la nascita di Henrietta, i Leavitt si spostarono a Cambridge, capoluogo di contea alla periferia di Boston, in una grande casa nelle vicinanze della chiesa dove George Roswell esercitava il proprio ministero. La dividevano con zia Mary, sorella della madre di Henrietta, e con una domestica, come ci dice un censimento governativo del 1880. A fianco abitavano i nonni paterni. Insomma, un’enclave familiare rispettabile e benestante, dove l’educazione e la cultura occupavano un posto di primo piano. Papà Leavitt aveva conseguito un dottorato in teologia e suo fratello Erasmus sarebbe diventato un famoso e influente ingegnere idraulico e un membro dell’American Academy of Arts and Sciences. In un mondo dove le donne occupavano ancora un posto di secondo piano, Henrietta venne invece indirizzata allo studio. Nel 1885, dopo il trasferimento della famiglia a Cleveland, Ohio, la ragazza si iscrisse all’Oberlin College, una scuola privata per l’educazione alle “arti liberali” fondata da due ministri del culto presbiteriani e nota per essere stata la prima istituzione americana di educazione superiore ad ammettere regolarmente studentesse e persone di colore. Qui Henrietta prese il diploma e completò i primi due anni di università. Poi, dopo un nuovo trasferimento che riportò i Leavitt a Cambridge, riuscì ad entrale alla Society for the Collegiate Instruction of Women, comunemente chiamata The Harvard Annex. Centrò brillantemente tutte le prove di ammissione, manifestando solo una lacuna in storia, che le venne permesso di colmare durante il corso degli studi.

Emanazione della prestigiosa università di Harvard, questa scuola riservata alle donne, concepita da un banchiere, filantropo e scrittore col proposito offrire un’opportunità di istruzione superiore alla propria figlia, si avviò nel 1879 attraverso il reclutamento di 44 professori pagati extra per tenere lezioni a classi femminili. Non era stato possibile fare di più in una società ancora rigidamente maschilista, come si comprende dalla reazione di Charles Eliot, presidente di Harvard, alla proposta di aprire direttamente l’università alle donne, creando così una promiscuità tra i due sessi a suo avviso difficile da gestire: “Il mondo non sa quasi nulla delle capacità del sesso femminile. Solo dopo generazioni di libertà civile e uguaglianza sociale sarà possibile ottenere i dati necessari per un’adeguata discussione delle tendenze naturali, dei gusti e delle capacità della donna […] Non è compito dell’Università decidere questo punto controverso”. Ma qualche volta le buone intenzioni vincono. Nel 1894 The Harvard Annex venne trasformato nel Radcliffe College, con la capacità di rilasciare diplomi di laurea, con i medesimi esami di ammissione richiesti agli studenti (maschi) di Harvard e con un’offerta formativa varia e prestigiosa.

Fondato nel 1839 dall’orologiaio William Cranch Bond, l’Harvard College Observatory (fig. 4) si era subito dotato di un potente cannocchiale, il Grande Rifrattore da 15 pollici installato nel 1847 e per 20 anni il maggiore del Paese. Nel 1877 ne era divenuto direttore il trentenne Edward Charles Pickering, ricercatore intraprendente e visionario che aveva subito avviato un gigantesco progetto di censimento stellare mediante materiale fotografico: una tecnica di registrazione delle immagini astronomiche entrata in uso da un paio di decenni e di cui Bond, assieme a John Adams Whipple, era stato pioniere. Allo scopo Pickering, che incarnava lo spirito di Tycho Brahe nella sua ossessione per la precisione e la completezza, per esplorare il cielo boreale aveva inutilmente cercato di piazzare un telescopio nei monti del Far West del Paese. Aveva invece avuto successo nell’emisfero australe dove, grazie a un lascito di 238000 dollari da parte di ricco inventore, Uriah A. Boyden, e alla fattiva collaborazione di Solon Irving Bailey, aveva potuto impiantare un Osservatorio ad Arequipa, ai piedi del maestoso vulcano andino El Misti, in Perù (fig. 5). Qui, il rifrattore Bruce di 61 cm di apertura e un campo di $25^{\circ} \times 25^{\circ}$, fabbricato dalla Alvan Clark e figli di Cambridge, produceva una messe di lastre di grande formato che dovevano essere analizzate a occhio, col solo ausilio di un microscopio. Con un’ora di posa erano in grado di mostrare stelle 10000 volte più deboli di quelle appena visibili a occhio nudo.

Per questo imponente e sistematico lavoro di riduzione e analisi (che riguardava anche gli spettri e che oggi si effettuerebbe rapidamente e accuratamente coi microdensitometri computerizzati), Pickering (fig. 6) aveva preso a servirsi di personale femminile (un totale di 80 donne in mezzo secolo di attività), più efficiente, docile e economico del personale maschile. Henrietta fu subito cooptata in questo “Pickering Harem” (fig. 7), come venne scherzosamente chiamata la squadra di “calcolatrici” di cui fecero parte anche Annie Jump Cannon (fig. 8), il cui nome è indissolubilmente legato alla compilazione di un formidabile catalogo stellare sia astrometrico che fotometrico, e Williamina Fleming, un’immigrata scozzese che Pickering aveva originariamente assunto come domestica in casa sua.

Miss Leavitt venne incaricata di cercare le stelle variabili, catalogarle e misurarne la luminosità (ricavata dai diametri delle immagini lasciate dalle stelle sulle emulsioni fotografiche) così da costruire delle prime “curve di luce”. Era un’attività che richiedeva la massima concentrazione, estremamente faticosa per gli occhi. Bisognava confrontare lastre del medesimo campo prese a epoche diverse, trovare le sorgenti che avevano subito una qualche variazione, catalogarle e poi misurarne la luminosità per paragone con una sequenza stellare standard. Un lavoro da contabile, decisamente oscuro ma capace di dare immense soddisfazioni se condotto con diligenza e perseveranza, come dimostrano tanti esempi in astronomia, come le scoperte serendipitous di Urano da parte di William Herschel e di Cerere da parte di Giuseppe Piazzi. E “Miss Leavitt era di una natura particolarmente quieta e ritirata, e assorta nel suo lavoro a un livello non comune”, scrive ancora Bailey. Non solo; sapeva anche pensare, cercando nei dati quelle correlazioni che sono la base per la costruzione delle scienze della natura.

Il tutto inizialmente gratis, poi con un piccolo salario che crebbe nel tempo sinché, nel 1902, Henrietta venne assunta nel ruolo dell’Osservatorio, pur mantenendo una grande elasticità nella gestione dei tempi di lavoro e nella frequenza all’Osservatorio. Il fatto è che da un lato miss Leavitt aveva sufficienti risorse per vivere senza lavorare, concedendosi anche lunghe vacanze all’estero, come quella iniziata nel 1896 che la tenne per due anni in giro per l’Europa, e una più breve (soli tre mesi) nel 1903. Dall’altro lato la sua cagionevole salute le impediva di mantenere quella continuità che Pickering, assetato di dati, pretendeva. Aveva cominciato a soffrire di gravi disturbi agli occhi, forse causati proprio dall’eccesso di lavoro sulle lastre. Poi prese ad accusare problemi sempre più gravi di udito: una menomazione fisica che lei temette fosse dovuta al lavoro e che però, come ad Annie Cannon, le regalò una capacità di concentrazione senza eguali. E già nel 1913 iniziarono a manifestarsi, con ricoveri ospedalieri e interventi chirurgici, quei problemi gastrici che, degenerati in tumore, l’avrebbero condotta a una prematura morte nel 1921, giusto cento anni fa. A ciò dobbiamo aggiungere le pause che Henrietta si concesse per provare una nuova esperienza lavorativa come assistente di un insegnante di arte, per seguire la famiglia nei diversi spostamenti, per i lutti e per assistere la madre e la zia in occasione delle varie infermità delle due anziane donne. Insomma, un’impiegata a singhiozzo che faceva il proprio lavoro con diligenza e intelligenza, con un forte senso del dovere ma senza passione, e che tuttavia doveva essere talmente brava da indurre il burbero Pickering a pazientare fino al punto da inviarle a casa il materiale da scrutinare, pur di poter continuare a avvalersi di lei. Veniamo allora alla scoperta che ha consegnato Henrietta Swan Leavitt alla storia.

Nell’autunno 1904, Pickering aveva fatto raccogliere ad Arequipa 16 lastre con lunghe esposizioni (da 2 a 4 ore) sulla Piccola Nube di Magellano (fig. 9), una prominente “nebulosa stellare” del cielo australe, per una sistematica campagna di ricerca delle stelle variabili. Il lavoro venne assegnato a miss Leavitt, che in breve tempo scoprì ben 1777 nuove stelle. Ma Henrietta non si frenò lì. Si accorse infatti che 25 di queste stelle mostravo un andamento della luminosità nel tempo (fig. 10) simile a quelle delle cosiddette variabili di ammasso, o RR Lyrae dal nome del prototipo: noi oggi le chiamiamo Cefeidi dal prototipo $\delta$ Cephei. Notò anche che la luminosità (media) sembrava crescere con periodo $P$ della pulsazione (fig. 11). Ebbe allora l’idea di mettere in grafico la magnitudine (sia massima che minima), che è una misura logaritmica della luminosità apparente, contro il logaritmo di $P$, ottenendo sorprendentemente una retta. Aveva scoperto quella che noi oggi chiamiamo relazione periodo-luminosità: $m = a + b\times log P$. È bene sottolineare subito che $m$ è sì una magnitudine apparente che dipende anche da quanto la sorgente è lontana; ma, poiché tutte le stelle della Piccola Nube si situano praticamente alla medesima distanza da noi, la magnitudine apparente differisce da quella assoluta $M$ per una costante, per cui: $M = a’ + b\times log P$. Questa formula empirica scoperta da Henrietta Leavitt trasforma le Cefeidi in precisi metri campione (fig. 12). Vediamo perché.

Immaginiamo di conoscere i valori di $a’$ e $b$ e di aver misurato magnitudine (media) $m_1$ e periodo $P_1$ di una Cefeide posta a distanza d sconosciuta. Avremo subito: $M_1 = a’ + b\times log P_1$ e dunque, dalla relazione: $M–m=5–5 log d$, otterremo senza fatica la distanza d della sorgente. Chiaro! Ma dove sta il vantaggio rispetto ad altre classi di stelle? Osserviamo prima di tutto che la pendenza $b$ è (quasi) una costante universale, come si dimostra empiricamente facendo vedere che non varia (molto) da un sistema di stelle all’altro. Inoltre le Cefeidi sono numerose, intrinsecamente brillanti (e quindi osservabili a grandi distanze), facili da scoprire e da riconoscere (ma attenzione a quanto diremo puoi sull’errore di Shapley). Sfortunatamente, essendo stelle di popolazione giovane, sono spesso associate a nebulosità che è causa di assorbimento (curabile e tuttavia fonte di addizionali incertezze). Candele campione ideali, dunque? Non fino a quando si sia trovato il modo di determinare anche il valore della costante $a_1$, ossia di tarare completamente la relazione periodo-luminosità. Prima di dire come, torniamo per un momento a miss Leavitt.

Il discovery paper venne pubblicato nel 1912 come Circolare No. 173 dell’Harvard College Observatory con un titolo insignificante, “Periods of 25 Variable Stars in the Small Magellanic Cloud”, a firma del solo Edward Pickering, come era costume. Henrietta viene menzionata nel testo come autrice delle misure. In un primo momento nessuno comprese l’importanza della scoperta. L’unico accenno è nella frase “poiché le variabili sono probabilmente a quasi la stessa distanza dalla Terra, i loro periodi sono apparentemente associati con la loro effettiva emissione di luce, come determinata dalla loro massa, densità, e brillanza superficiale”. Davvero poco per una relazione destinata a rivoluzionare le nostre idee sul cosmo. Tant’è vero che Pickering non ritenne importante approfondire ulteriormente la questione e destinò Henrietta ad altro incarico, sempre nel mondo delle misure fotometriche ovviamente. Poca gloria e poca fortuna. Intanto la salute della donna andava peggiorando sinché incominciarono i ricoveri in ospedale.

Nel frattempo, Harlow Shapley (fig. 13), esuberante e geniale figlio di agricoltori del Missouri e già astronomo a Mount Wilson, aveva compreso che “la scoperta della correlazione tra periodo e luminosità [era] destinata ad essere uno dei risultati più significativi nel campo dell’astronomia stellare”. Avendo escogitato un modo, per altro errato, con cui determinare la costante $a’$, riuscì a dare una sua misura dell’estensione della Via Lattea, che a suo dire era immensamente grande tanto da inglobare ogni altra nebula. Per la gloria che gliene venne, nel 1920, un anno dopo la morte di Pickering, venne chiamato a dirigere l’Osservatorio a dispetto della giovane età. Poteva essere l’occasione d’oro per riunire il rampante genio con l’infaticabile esperta di variabili, ma ormai Henrietta era in fin di vita. Shapley andò a trovarla in ospedale: “Una delle poche cose giuste che abbia mai fatto è stato farle visita mentre si trovava sul letto di morte. I suoi amici mi hanno detto che il fatto che il direttore fosse andato a vederla aveva significato molto per lei”. Henrietta passò a miglior vita in un freddo mattino del dicembre 1921 e venne tumulata nel cimitero di Cambridge. Nella sua discontinua carriera aveva totalizzato un invidiabile bottino di scoperte: 4 nove, circa 2400 variabili ossia il 50% del totale di quelle allora note, vari asteroidi e altro ancora, ma soprattutto la relazione periodo luminosità delle Cefeidi, vero grimaldello per le distanze celesti. Cinque anni dopo la sua scomparsa, grazie a questa scoperta (e anche al lavoro del suo collega e avversario Shapley), Edwin Powell Hubble, un altro figlio del profondo Sud, avrebbe potuto annunziare al mondo che la stagione del dubbio era finita: gli universi isola avevano vinto (fig. 14). Niente male per una piccola donna timida e cagionevole cui non fu mai concesso di fare carriera.

La storia non finisce qui. Nel 1925, il matematico svedese Gösta Mittag-Leffler, ignorandone la scomparsa, scrisse a Henrietta: “Pregiatissima signorina Leavitt, ciò che il professor von Zeipel, amico e collega di Uppsala, mi ha raccontato a proposito della sua notevole scoperta di una legge empirica sulla relazione tra magnitudine e lunghezza del periodo delle variabili cefeidi della Piccola Nube di Magellano mi ha profondamente impressionato, tanto che sarei propenso a nominarla per premio Nobel per la fisica del 1926, sebbene debba confessare che le mie conoscenze in materia sono alquanto rudimentali”. La lettera venne consegnata al direttore Shapley che rispose comunicando la scomparsa di Henrietta e ad un tempo attribuendosi (slealmente) i meriti della scoperta e (correttamente) del suo utilizzo. Così facendo, forse sperava di dirottare su di sé la candidatura per il Nobel, ormai dimentico della signorina che aveva visitato “morente con un guaio maligno allo stomaco. Così esile e cambiata. Molto, molto triste”. Ci sarebbero gli estremi per una satira di Trilussa.