Dante Alighieri cosmography

Sperello di Serego Alighieri


Cosmografia dantesca

1 Introduzione

A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri la sua eredità culturale è sempre attuale, anche nel campo dell’astronomia, che non è certo quello per cui è famoso, ma è quello di cui io da astrofisico posso parlarvi. In effetti le scienze, e l’astronomia in particolare, hanno per Dante una grandissima importanza. Nel Convivio egli scrive:

la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.
(Convivio I, I, 1)

e poco più avanti specifica:

E questa (l’astronomia) più che alcuna de le sopra dette (scienze) è nobile e alta per nobile e alto subietto, ch’è de lo movimento del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la quale è sanza ogni difetto, sì come quella che da perfettissimo e regolatissimo principio viene. E se difetto in lei si crede per alcuno, non è da la sua parte, ma, sì come dice Tolomeo, è per la negligenza nostra, e a quella si dee imputare.
(Convivio II, XIII, 30)

Quindi per Dante la scienza è perfezione e fonte di felicità e fra le scienze la più nobile e alta è l’astronomia; senza dubbio una grande passione, che condivido con il mio antenato. Nel Medioevo, a differenza di oggi, era possibile per un’unica persona, soprattutto se geniale, spaziare fra molti campi della cultura: dalle arti, come la poesia, alla filosofia, dalle scienze alla teologia. Con la sua memoria prodigiosa, Dante ne è uno dei massimi rappresentanti e questo traspare in modo naturale nelle sue opere, soprattutto nella maggiore, la Commedia, o Divina Commedia, come fu poi chiamata in un’edizione cinquecentesca che estendeva all’intero poema l’aggettivo divina che Giovanni Boccaccio aveva dato alla sola cantica del Paradiso.

Il poema dantesco è il racconto di un viaggio attraverso tutto l’universo, così come era conosciuto all’epoca, ovviamente; sicuramente è il più famoso racconto di questo tipo, quasi un libro di fantascienza ante litteram e insieme un trattato di cosmologia e cosmogonia, scritto in forma poetica. Il viaggio comincia con una discesa verso il centro della Terra, che era ritenuto essere anche il centro dell’universo e origine della gravità, e prosegue con la salita fino all’Empireo, al di là delle stelle, ai confini dell’universo. Le interazioni fra poesia e scienza e fra teologia e astronomia, che per Dante erano la strada verso la perfezione e la felicità, a noi appaiono strane per via della nostra incapacità ad essere esperti di tante materie, solo parzialmente dovuta all’aumento esponenziale delle conoscenze.

All’epoca di Dante tutti avevano almeno una minima conoscenza del cielo, anche perché di notte non c’erano altre luci che quelle degli astri ad illuminare e guidare i viandanti. Quindi l’ampio uso dell’astronomia che Dante fa nel suo poema aveva la possibilità di essere capito. Oggi purtroppo questa conoscenza diffusa si è persa; l’astronomia non fa nemmeno parte degli insegnamenti scolastici obbligatori. Spero qui di porvi un parziale rimedio.

Questo articolo, in cui tratto di argomenti fisici e cosmologici nella Divina Commedia appare insieme ad un altro di argomento simile sul Giornale di Astronomia, in cui invece tratto di argomenti più astronomici. La quantità di passi fisici e cosmologici nel poema dantesco è molto grande e potrò fare qui solo alcuni esempi. Per una trattazione più completa rimando al libro che ho scritto recentemente con Massimo Capaccioli.

2 Il passaggio al centro della Terra

In fondo all’Inferno, al centro della Terra, che è anche il centro dell’Universo, è incastrato Lucifero. Dante e Virgilio discendono lungo il suo corpo:

Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ‘n inferno i’ credea tornar anche.
(Inf. XXXIV, 76-81)

Quando passano le anche di Lucifero, la forza di gravità improvvisamente si capovolge e quella che era discesa si trasforma in salita. Infatti per la fisica aristotelica la gravità era una proprietà legata al centro dell’Universo, quindi al centro della Terra, al quale tutti i corpi pesanti tendono naturalmente. Ci vorrà Isaac Newton, quattro secoli dopo Dante, per dire che invece la gravità è una forza attrattiva di tutti i corpi che hanno massa, e poi Einstein, altri due secoli dopo, per dire che è una deformazione dello spazio-tempo indotta dalla massa.

3 L’arcobaleno

Dante parla varie volte dell’arcobaleno. Per esempio nel XXIX canto del Purgatorio, per descrivere i vivaci colori delle scie luminose dei sette candelabri portati in processione, poco prima dell’incontro con Beatrice, Dante fa riferimento all’arcobaleno e all’alone lunare (la Luna, mitologicamente Diana che era nata a Delo, è detta Delia):

e vidi le fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;
sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.
(Purg. XXIX, 73-78)

Questa metafora è scientificamente assai appropriata, perché in entrambi i casi i colori sono dovuti a riflessioni all’interno di gocce d’acqua. Dante nel canto XXV del Purgatorio accenna al fatto che l’arcobaleno è dovuto, come noi sappiamo bene, alla riflessione dei raggi del Sole nelle gocce di pioggia:

E come l’aere, quand’è ben piorno,
per l’altrui raggio che ‘n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno;
(Purg. XXV, 91-93)

Di nuovo nel XII canto del Paradiso Dante, per descrivere la doppia corona di spiriti apparsa durante il discorso di San Tommaso, usa il duplice arco dell’arcobaleno:

Come si volgon per tenera nube
due archi paralleli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,
nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch’amor consunse come sol vapori,
e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non s’allaga;
(Par. XII, 10-18)

È assai precisa questa descrizione del fenomeno. Avviene con il Sole alle spalle dell’osservatore che di fronte ha invece pioggia, quindi si proietta in genere sulle nubi che generano la pioggia. Inoltre i due archi sono concentrici, quindi paralleli, e i colori si ripetono invertiti (“nascendo di quel d’entro quel di fori”), in quanto l’arco esterno è dovuto a una doppia riflessione nelle gocce d’acqua. La ninfa Iride, che era ancella di Giunone, è accompagnata dalla ninfa Eco, che si consumò d’amore per Narciso. A questi ricordi pagani si somma quello biblico dell’arcobaleno che segna la riconciliazione di Dio con l’umanità dopo la punizione del diluvio universale e suggella il patto con Noè che non ci sarebbero stati altri diluvi.

4 Il pulviscolo atmosferico

Nel canto XIV del Paradiso, per descrivere gli spiriti del cielo di Marte che si muovono lungo una croce, Dante li paragona alle particelle del pulviscolo atmosferico, che danzano in un raggio di luce nell’oscurità:

così si veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
le minuzie dei corpi, lunghe e corte,
moversi per lo raggio onde si lista
talvolta l’ombra che, per sua difesa,
la gente con ingegno e arte acquista.
(Par. XIV, 112-117)

Il fenomeno è reso magistralmente e appare chiara l’imitazione di un passo di Lucrezio:

Contemplator enim, cum solis lumina cumque
inserti fundunt radii per opaca domorum:
multa minuta modis multis per inane videbis
corpora misceri radiorum lumine in ipso
et velut aeterno certamine proelia pugnas
edere turmatim certantia nec dare pausam,
conciliis et discidiis exercita crebris.
(De rerum natura, II, 114-120)

Le parole di Lucrezio multa minuta corpora modis multis si ritrovano in Dante con “diritte e torte, veloci e tarde ... le minuzie dei corpi, lunghe e corte”. Molti studiosi hanno negato che Dante possa aver letto il De rerum natura, che non era ancora stato riscoperto nel 1417 in un monastero tedesco dall’umanista Poggio Bracciolini. Alcuni hanno ipotizzato che Dante possa aver conosciuto il testo di Lucrezio attraverso Lattanzio, scrittore latino vissuto a cavallo del III e IV secolo (De ira dei, I, 10, 9). Tuttavia la possibilità di una conoscenza diretta non si può affatto escludere, visto che Giuseppe Billanovich ha dimostrato che il poema latino circolava in forma integrale fino dalla metà del XIII secolo nel cenacolo dei preumanisti padovani fiorito intorno a Lovato de’ Lovati.

5 I fulmini

Ai tempi di Dante si pensava che il fulmine si sviluppasse nelle regioni dove la sfera dell’aria confina con quella del fuoco, il cui calore si accumula nelle nubi fino a scaricarsi con i fulmini. Nel canto XXXII del Purgatorio Dante paragona al fulmine l’aquila che scende velocissima sul carro della Chiesa:

Non scese mai con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto,
com’io vidi calar l’uccel di Giove
(Purg. XXXII, 109-112)

Addirittura l’aquila è più veloce di qualsiasi fulmine. Più avanti nel XXIII canto del Paradiso usa il fulmine per indicare un’azione fuori dal normale:

Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s’atterra,
(Par. XXIII, 40-42)

Infatti il fuoco del fulmine per sua natura tenderebbe a salire verso la sfera del fuoco (Par. I, 115), ma l’accumulo eccessivo nella nube lo costringe invece a scendere verso terra. La stessa tendenza contro natura del fulmine è citata anche nel I canto del Paradiso (133-135):

e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.
(Par. I, 133-135)

6 Le maree

Nel canto XVI del Paradiso l’avo Cacciaguida rappresenta a Dante le alterne fortune dell’amata Firenze utilizzando una similitudine: la sorte si comporta come la Luna con le maree:

E come ‘l volger del ciel de la luna
cuopre e discopre i liti senza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
(Par. XVI, 82-84)

Il fenomeno delle maree è citato anche nel XV canto dell’Inferno, dove il Poeta fa uno dei suoi frequenti riferimenti geografici, in questo caso agli argini eretti dai fiamminghi per contrastare l’assalto delle acque tra Wissant e Bruges (nomi di località sono italianizzati per creare un’onomatopea che richiami il fuoco):

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
(Inf. XV, 4-6)

Il fenomeno è di quelli che più hanno stimolato in ogni angolo del pianeta l’umana speculazione alla ricerca delle cause, usando sia le armi della più sfrenata fantasia che della ragione. Le soluzioni via via proposte ci appaiono talvolta stravaganti (come l’idea giapponese di un Dio del mare che controlla l’innalzarsi periodico delle acque tramite un magico gioiello), ma chiamano spesso in causa la Luna, correttamente, seppur nell’ignoranza delle ragioni vere sul ruolo della stella Diana.

Nel bacino del Mediterraneo, dove tra l’altro le maree hanno ampiezze modeste, la correlazione fra il sorgere e il calar della Luna e l’andamento altalenante delle acque (che si innalzano e calano due volte al giorno circa) era stata notata empiricamente sin dal IV secolo prima di Cristo. Quasi ignorato da Aristotele, il fenomeno venne esaminato dal filosofo, geografo e storico greco Posidonio di Rodi (II-I sec. a.C.) che lo attribuì a qualche sconosciuta influenza degli astri, soprattutto della Luna: un’idea poi ripresa in chiave astrologica da Tolomeo. Al tempo di Dante giravano teorie di stampo vitalistico, di matrice sia classica, sia araba, le quali assegnavano a qualche funzione dell’organismo Terra il compito di modulare periodicamente l’altezza delle acque. Sembra che il Sommo Poeta però non le abbia recepite, data la sua perentoria associazione del fenomeno marea alla Luna. Ancora una magistrale intuizione che, dopo il fallimentare tentativo di Galilei di spiegare il flusso e riflusso delle acque tramite la rotazione e la rivoluzione della Terra, avrebbe trovato una piena giustificazione fisica con Isaac Newton oltre 3 secoli e mezzo dopo. È forse interessante notare come già allora fosse chiara la maggiore “potenza” del Sole, ormai re del Sistema Solare, rispetto alla piccola Luna, che invece riguardo alle acque pareva dettare le regole del gioco. Il fatto è che, spiegò Newton, le maree non rispondono alla gravità tout-court, bensì alla sua variazione lungo l’estensione del corpo attratto, e in questo gioco la straripante massa del Sole viene penalizzata dalla esorbitante distanza dell’astro rispetto alla Luna.

7 Le macchie lunari

Nel II canto del Paradiso nel cielo della Luna, c’è un bellissimo scambio fra Beatrice e Dante (vv. 49-111), che val la pena di seguire nel dettaglio perché è pieno di argomenti astronomici e scientifici, anzi riguarda addirittura il metodo scientifico. Il poeta chiede alla sua donna a cosa siano dovute le macchie lunari, nelle quali la fantasia popolare vede la figura di Caino (come aveva già sottolineato nel XX canto dell’Inferno):

«Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?»
(Par. II, 49-51)

Beatrice dapprima ammonisce Dante che, a volte, seguendo quello che ci dicono i sensi, la nostra ragione non raggiunge il vero. Poi gioca di rimessa e chiede al poeta cosa lui pensi sulle macchie lunari:

Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra
l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali
dove chiave di senso non diserra,
certo non ti dovrien punger li strali
d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
vedi che la ragion ha corte l’ali.
Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
(Par. II, 52-58)

Dante suppone che siano dovute a differenze di densità, rifacendosi ad un’idea di Averroé, accolta da Alberto Magno (Convivio II, XIII, 9):

E io: «Ciò che n’appar qua su diverso
credo che fanno i corpi rari e densi».
(Par. II, 59-60)

La replica di Beatrice inizia pomposamente con un monito introduttivo. Poi nota che l’ottava sfera, cioè il cielo delle stelle fisse, mostra molte luci di varia intensità. Se ciò fosse dovuto a differenze di densità, le stelle avrebbero una sola virtù pur variamente distribuita. Invece ogni stella ha una sua virtù speciale:

Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l’argomentar ch’io li farò avverso.
La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si possono di diversi volti.
Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distribuita e altrettanto.
Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.
(Par. II, 61-72)

Come diceva San Tommaso (In libros Aristotelis De Coelo et mundo expositio, II, lect. 19): “è necessario che la sfera più alta abbondi nella quantità di stelle in cui si trovano le diverse virtù attive” (si veda anche Quaestio de aqua et terra, XXI, 70-71).

Poi Beatrice dà un’altra confutazione di ordine fisico dell’idea di Dante. Se le zone più scure della Luna fossero dovute a scarsa densità, possono darsi due casi: o le zone meno dense attraverserebbero tutto il corpo lunare, oppure questo avrebbe in tutta la sua faccia strati densi e altri meno densi. Nel primo caso la Luna sarebbe in parte trasparente e questo si vedrebbe in un’eclissi di sole, cosa che non succede, quindi il primo caso è escluso. Nel secondo caso la luce penetrando nella Luna dovrebbe comunque ad un certo punto incontrare una zona più densa che non la lascia passare. Questa la rifletterebbe come uno specchio (gli specchi erano fatti da vetri rivestiti da uno strato di piombo). E non serve dire che nelle zone più scure lo strato riflettente più denso sia più arretrato rispetto alle zone chiare:

Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno
esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ‘l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.
Se ‘l primo fosse, fora manifesto
ne l’eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro ingesto.
Questo non è: però è da vedere
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
falsificato fia lo tuo parere.
S’elli è che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi;
e indi l’altrui raggi si rifonde
così come color torna per vetro
lo quale di retro a sé piombo nasconde.
Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.
(Par. II, 73-93)

Per confutare la possibile obiezione, Beatrice ricorre ad un esperimento immaginato, una sorta di Gedankenexperiment alla Einstein: prendi tre specchi, due li metti a distanza uguale da te, il terzo più distante e posto in mezzo agli altri due. Dietro di te metti un lume che sia riflesso da tutti gli specchi. Vedrai che il lume risplende ugualmente in tutti gli specchi, anche se in quello più lontano è più piccolo. Questa osservazione anticipa la teoria della indipendenza della luminosità superficiale dalla distanza, ben nota a noi astronomi. Questa teoria dice che la luce emessa per unità di angolo solido da un corpo luminoso esteso non dipende dalla sua distanza; la ragione è che la luminosità superficiale è il rapporto fra la luminosità del corpo e l’angolo solido che sottende: poiché entrambi diminuiscono come l’inverso del quadrato della distanza, il loro rapporto non cambia (a meno che non intervenga assorbimento della luce da parte di qualche mezzo interposto fra sorgente e osservatore).

Quindi, poiché nemmeno il secondo caso può spiegare le macchie lunari, l’ipotesi che siano dovute a differenti densità è definitivamente confutata.

Da questa instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arti.
Tre specchi prenderai: i due rimovi
da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
Rivolto a essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.
Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch’igualmente risplenda.
(Par. II, 94-105)

Infine Beatrice, dopo aver confutato esaustivamente l’ipotesi di Dante, nel resto del canto enuncia quella che sarebbe la vera causa delle macchie lunari: dipendono dalla virtù che dall’Empireo viene variamente distribuita ai cieli sottostanti.

La questione delle macchie lunari è antica e delicata. Aristotele aveva postulato che la Luna, come tutte le altre stelle erranti, fosse una sfera omogenea composta di etere, sostanza misteriosa propria dei corpi celesti. Un’idea ortogonale a quella di Anassagora, che invece la reputava un grosso sasso, funzionale alla visione dicotomica del cosmo cara allo stagirita e tuttavia cimentata dall’apparenza maculata del corpo che sembrava contraddire l’assunto. La questione divenne scottante nel Medioevo, nonostante l’imperare dell’ipse dixit che faceva digerire anche i bocconi più amari per la ragione. Qualcuno fece addirittura marcia indietro, ripescando la proposta di Anassagora che a suo tempo era stata giudicata eretica. Ma i più pensarono di superare l’impasse postulando che le macchie fossero la conseguenza di eccessi e difetti nella densità dell’etere, glissando sul fatto che anche questa soluzione violava il postulato aristotelico della perfezione dell’etere.

Finalmente, tre secoli dopo la stesura della Commedia, Galileo Galilei, osservando il nostro satellite con il suo cannocchiale, ne avrebbe scritto così nel Sidereus Nuncius:

[...] della faccia lunare che è rivolta al nostro sguardo [...] io distinguo in due parti, più chiara e più oscura. La più chiara par circondare e cosparger di sé tutto l’emisfero; la più scura invece, offusca a guisa di nuvola la faccia stessa e la fa apparire macchiata. Ora queste macchie, alquanto oscure e abbastanza ampie, sono visibili ad ognuno, e sempre in ogni epoca furono scorte; e perciò le chiameremo grandi, o antiche, a differenza di altre macchie, minori per ampiezza, ma così fitte, da ricoprire tutta la superficie lunare, e specialmente la parte più lucente. Queste invero da nessuno furono osservate prima di noi [...].

Per concludere questa interessante discussione sull’origine delle macchie lunari, vorremmo porre in evidenza che i) Dante elegge una donna a sua maestra di scienza, ii) precorre il metodo scientifico, perché fa uso di esperimenti reali o pensati, e iii) anticipa la teoria della indipendenza della luminosità superficiale dalla distanza.

8 La struttura dell’universo illimitato ma finito

L’universo dantesco parte da quello tolemaico con la Terra ferma al centro e i nove cieli che gli ruotano attorno sempre più rapidamente: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle Fisse e il Primo Mobile. Tuttavia Dante estende la struttura tolemaica con una simmetrica al di là del Primo Mobile (fig. 1). Quando ci arriva nel XXVII canto del Paradiso, il poeta si volta a guardare in basso e vede lontana la Terra al centro delle nove sfere celesti. All’inizio del canto successivo guarda dall’altra parte e vede una struttura simmetrica, altre nove sfere (i cerchi angelici), che ruotano sempre più velocemente andando verso l’interno e hanno al centro un punto luminosissimo che è Dio.

e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che ‘l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così l’ottavo e ‘l nono; e ciascheduno
Più tardo si movea, secondo ch’era
In numero più distante da l’uno;
(Par. XXVIII, 28-36)

Questa struttura simmetrica fa venire in mente l’ipersfera che descrive l’universo in accordo con la teoria della relatività generale di Einstein. Questa somiglianza è stata notata per la prima volta nel 1925, pochi anni dopo la pubblicazione della teoria einsteiniana, dal matematico svizzero Andreas Speiser e poi in un bellissimo articolo del fisico e matematico americano Mark A. Peterson del 1979. L’ipersfera o 3-sfera $ ( S^{3} ) $ è una sfera tridimensionale in uno spazio a 4 dimensioni ed è descritta da:

$ x^{2} + y^{2} +z^{2} + w^{2} = R^{2}$

Può essere vista come l’elemento successivo della sequenza $S^{0}$ (due punti), $S^{1}$ (un cerchio), $S^{2}$ (la superficie di una sfera, cioè una superficie bidimensionale in uno spazio a 3 dimensioni). Questo passaggio ad una dimensione superiore aiuta a visualizzare l’ipersfera ed è probabilmente quello che ha consentito a Dante di immaginarla. Ovviamente l’ipersfera descrive un universo curvo al quale non si applica la geometria euclidea, ma quella di Riemann, che è un’estensione della geometria sferica. Per evidenziare le grandi differenze fra le due, basterà ricordare che la geometria sferica è quella in cui le rette sono cerchi massimi, la somma degli angoli di un triangolo non è un angolo piatto e non vale il teorema di Pitagora.

Come ha fatto Dante ad immaginare per l’universo una struttura che sarebbe stata studiata e capita solo molti secoli dopo? La risposta a questa domanda è probabilmente legata al fatto che nel medioevo la geometria sferica era conosciuta forse anche di più di quella euclidea, perché è la geometria che descrive le superficie su cui noi ci muoviamo tutti i giorni, cioè quella della Terra, quindi rispondeva ad una precisa necessità pratica. Inoltre Dante ha avuto come maestro Brunetto Latini, che aveva scritto il Tresor, un’opera enciclopedica in lingua d’oïl, in cui tratta anche di geometria sferica. Ne tratta non guardando una sfera da fuori, ma standoci sopra, come noi sulla superficie della Terra, e fa questo esempio: prendete due cavalieri che partono da uno stesso punto e viaggiano in due direzioni diverse. Trascurando mari e monti, si incontreranno agli antipodi e poi, continuando sempre nella stessa direzione, si rincontrano al punto di partenza. Questo modo di guardare alla superficie di una sfera doveva essere ben chiaro a Dante. Altrettanto facile era per lui immaginare l’esempio seguente. Prendete un viaggiatore che parta dal polo Nord della Terra. In qualsiasi direzione vada andrà verso Sud ed attraverserà paralleli (cerchi) sempre crescenti, fino all’equatore, il parallelo più grande. Da notare che, se si mette un parallelo ogni dieci gradi, fra il polo Nord e l’equatore ci sono nove paralleli, come i nove cieli dalla Luna al Primo Mobile. Poi il viaggiatore attraverserà l’equatore, e non importa dove lo attraversi, la situazione non cambia. Dopo l’equatore attraverserà cerchi paralleli sempre più piccoli fino ad arrivare al Polo Sud. Da questo semplice esempio basta aumentare di una dimensione e si ha quello che ha fatto Dante: è partito dal centro della Terra, dove c’è Lucifero (equivalente al polo Nord), ha attraversato nove cieli sempre più grandi (equivalenti ai paralleli crescenti dal polo Nord all’equatore), ha attraversato il Primo Mobile (equivalente all’equatore) in un punto qualsiasi (Dante lo dice: ch’i’ non so dire / qual Bëatrice per loco mi scelse. (Par. XXVII, 101-102)) e al di là ha trovato altre nove sfere una dentro l’altra, i cori angelici (equivalenti ai paralleli dall’equatore al polo Sud) con al centro un punto luminosissimo che è Dio (equivalente al polo Sud). Questo passaggio ad una dimensione superiore Dante era senz’altro in grado di farlo ed è così che ha precorso l’ipersfera. La quarta dimensione di Dante è la velocità di rotazione, una coordinata che, come già notato, cresce costantemente dalla Terra fino al cerchio dei Serafini e a Dio.

Con questa idea in mente è interessante rileggere alcuni passi del XXVII e del XXVIII canto del Paradiso. Descrivendo il Primo Mobile Beatrice dice a Dante:

Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ‘l cinge solamente intende.
(Par. XXVII, 112-114)

l punto luminosissimo che è Dio circonda il Primo Mobile come questo circonda gli altri cieli; e questa “cintura” può essere compresa solo da chi la circonda, cioè Dio.

All’inizio del XXVIII canto Dante, illuminato da Beatrice, nota, anzi ricorda, la simmetria speculare fra i cieli e i cerchi angelici:

oscia che ‘ncontro a la vita presente
d’i miseri mortali aperse ‘l vero
quella che ‘mparadisa la mia mente,
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n’alluma retro,
prima che l’abbia in vista o in pensiero,
e sé rivolge per veder se ‘l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
con esso come nota con suo metro;
così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.
(Par. XXVIII, 1-12)

Più avanti Beatrice descrive il punto che è Dio:

La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura.
(Par. XXVIII, 40-42)

Mark Peterson nel suo articolo già citato sostiene che la parola “depende” abbia a che fare con uno dei metodi usati per visualizzare una n-sfera, che consiste nel “sospendere” due punti sopra e sotto una sfera di dimensione inferiore e collegarli con tutti i punti di quest’ultima: si veda per esempio in fig. 2 come da $S^{1}$ (cerchio) si passa a $S^{2}$ (superficie sferica). Insomma Dante, attraverso la bocca di Beatrice, fornirebbe al lettore il metodo per immaginare la struttura dell’universo.

Beatrice si rende conto della difficoltà di Dante nel comprendere per primo quello che vede:

«Se li tuoi diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!».
(Par. XXVIII, 58-60)

Più avanti, dopo un’ulteriore spiegazione di Beatrice, con una bellissima similitudine Dante esprime la sua meraviglia nella scoperta:

Come rimane splendido e sereno
l’emisperio de l’aere, quando soffia
Borea da quella guancia ond’è più leno,
per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che ‘l ciel ne ride
con le bellezze d’ogne sua paroffia;
così fec’ïo, poi che mi provide
a donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in ciel il ver si vide.
(Par. XXVIII, 79-87)

È importante notare che Dante non poteva essere soddisfatto dalla struttura tolemaica dell’universo che vede al centro la Terra, quindi Lucifero, ed ha creato una struttura con due centri, Lucifero e Dio, con una coordinata che cresce da uno all’altro.

Infine la struttura dell’universo dantesco risolve anche diverse controversie teologiche: se l’universo fosse finito o infinito? Ma se fosse infinito entrerebbe in competizione con Dio? Se fosse finito, cosa c’è fuori? E Dio è dentro o fuori dell’universo? L’universo di Dante è curvo, illimitato ma finito, così come lo è la superficie di una sfera, Dio è dentro l’universo e fuori non c’è niente.

9 Conclusione

L’autore è discendente di Dante, 19 generazioni dopo il poeta. Pietro Alighieri, figlio di Dante, è vissuto a Verona, dove Dante ha soggiornato a lungo, ospitato dagli Scaligeri. Pietro è stato anche giudice a Verona e il 23 aprile 1353 acquistò un terreno a Gargagnago in Valpolicella, che è tuttora proprietà della famiglia Serego Alighieri. La discendenza da Dante non è però tutta per via maschile, in quanto nel ‘500 era rimasta un’unica discendente donna, Ginevra Alighieri, che nel 1549 sposò Marcantonio di Serego. Francesco Alighieri, zio di Ginevra e ultimo discendente maschio di Dante, nel 1558 lasciò in eredità a Pieralvise, figlio di Ginevra e Marcantonio, varie proprietà, fra cui quelle a Gargagnago, a patto che lui e i suoi discendenti aggiungessero al cognome dei Serego quello degli Alighieri. L’atto di acquisto del terreno a Gargagnago nel 1353 e il testamento di Francesco Alighieri sono conservati nell’archivio di famiglia.

In un segnalibro che venne regalato da suo padre all’autore, quando cominciava a leggere, ci sono scritti questi versi della Commedia:

O poca nostra nobiltà di sangue,
...
Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.
(Par. XVI, 1... 7-9)

Insomma, la nobiltà e la discendenza svaniscono, preda del tempo, se non ci si dà da fare per consolidarle. Spero con questo articolo di esserci almeno in parte riuscito.