The discovery of the electron: J.J. Thomson 1897

Nadia Robotti


La scoperta dell'elettrone: J.J. Thomson 1897

1 L’inizio

Uno dei problemi più importanti che la Fisica della seconda metà dell’'800 si trovava di fronte era quello di riuscire a cogliere ciò che veniva considerato “il segreto dell’elettricità”: ovvero la “natura dell’elettricità” e la relazione tra elettricità e materia. A questo riguardo il “Trattato” di J. C. Maxwell, uscito in due volumi nel 1873, non era di alcun aiuto. Le equazioni di Maxwell in esso esposte, infatti, non richiedevano l’adozione di un particolare modello sulla natura dell’elettricità; inoltre le grandezze fisiche in esse rappresentate potevano essere interpretate in termini di elettricità intesa sia come fluido continuo, sia in modo discreto. Anche le previsioni che le equazioni di Maxwell erano in grado di fare non dipendevano dal modello di elettricità adottato.

Questo approccio, come osservava lo stesso Maxwell, era in grado di cogliere “gli effetti totali e i risultati finali, ma non il meccanismo intermedio” e pertanto, non poteva essere considerato soddisfacente. Per rimediare, la via che venne maggiormente seguita e che alla fine si mostrò la più feconda fu quella di studiare il comportamento di un gas rarefatto sottoposto a una scarica elettrica. La motivazione di una tale scelta era duplice. In primo luogo questo tipo di studi consentiva di analizzare le interazioni tra elettricità e materia nel caso in cui quest’ultima si trovava nello stato “evidentemente” più semplice, ossia nello stato gassoso. In secondo luogo, per lo stato gassoso, a differenza degli altri stati, esisteva una teoria abbastanza consolidata, la teoria cinetica dei gas, alla quale eventualmente fare riferimento.

I dispositivi per lo studio della scarica nei gas rarefatti usati nella seconda metà dell’Ottocento erano costituiti da un tubo di vetro, lungo qualche decimetro, contenente un gas a bassa pressione, al cui interno erano posti due elettrodi, l’anodo e il catodo, collegati rispettivamente ai poli (+) e (–) ad alta tensione di una macchina elettrostatica (d.d.p. tipiche usate ~103 Volt).

Se la pressione all’interno del tubo è ~10 mm Hg, la scarica si manifesta con una luminosità diffusa (analoga a quella dei nostri “tubi al neon”) il cui colore dipende dal tipo di gas. Diminuendo ulteriormente la pressione la scarica si presenta con caratteristiche assai complesse, che dipendono non solo dalla pressione usata, ma da altri parametri quali la forma e la disposizione degli elettrodi, la forma del tubo, il tipo di gas, etc. Per dare un’idea della difficoltà del problema che i fisici della seconda metà dell’Ottocento si trovavano ad affrontare ho riportato alcune tavole pubblicate su una delle riviste più importanti di quegli anni, le Philosophical Transactions.

In fig. 1 è schematizzato uno di questi esperimenti, fatti a una pressione di ~10 mm Hg in cui la scarica si manifesta con una nube diffusa, che riempie tutto il tubo.

Diminuendo ancora la pressione questa nube diffusa perde gradatamente di luminosità e, a un certo punto, appare suddivisa in tante “striature”, la posizione e la forma delle quali varia diminuendo ancora la pressione e cambiando il tipo di gas. In fig. 2 sono riportati alcuni di questi fenomeni di stratificazione, per pressioni variabili tra 1 e 10–1 mm Hg, mentre nella fig. 3 sono mostrati processi di scarica nei quali sono stati modificati sia la pressione e il tipo di gas, sia la forma degli elettrodi e la forma del tubo.

2 La svolta

Vista la vasta e complicata fenomenologia che accompagna le scariche nei gas rarefatti, viene immediato chiederci come fu possibile giungere attaverso questo tipo di studi a una conoscenza del rapporto elettricità-materia. La risposta, a mio avviso, è che una tale operazione si rese possibile quando, nella vastità delle fenomenologie che accompagnano le scariche, venne individuata un’invariante e su di essa vennero focalizzate le indagini. Questa invariante era lo spazio buio antistante il catodo. Già M. Faraday nelle sue “Experimentals Researches” del 1839 aveva segnalato l’esistenza, nella scarica luminosa, di una “zona oscura” davanti al catodo, sempre presente qualunque fosse la forma degli elettrodi (rotonda o allungata) oppure qualunque fosse la loro distanza”.

Tuttavia, progressi nella caratterizzazione di questa zona oscura si poterono fare solo dopo che nel 1858 venne sviluppata da H. Geissler una nuova tecnologia per la costruzione delle pompe a vuoto che consisteva nel sostituire i pistoni con colonne di mercurio e che consentiva di raggiungere pressioni dell’ordine dei 10–2 mm Hg. Lavorando a queste pressioni si potè stabilire che la “zona oscura” individuata da Faraday non solo era sempre presente qualunque fossero le condizioni di scarica, ma aumentava di dimensioni al diminuire della pressione, comprimendo via via verso l’anodo le stratificazioni luminose presenti. Quando la pressione raggiungeva i 10–2 mm Hg, la zona oscura si estendeva per tutto il tubo, raggiungendo la parete dietro l’anodo, dove provocava fosforescenza del vetro e diventava, in questo modo, l’unico fenomeno visibile.

Una volta identificata questa zona oscura come una costante dei processi di scarica nei gas rarefatti, l’interesse venne rivolto ad essa e in particolare all’individuazione delle sue proprietà fisiche.

A partire dal 1860, grazie soprattutto ai lavori di M. Plucker, di E. Goldstein, di C. F. Varley e di W. Crookes, si riuscì a stabilire che questa zona oscura era la zona di transito di “qualcosa” proveniente dal catodo, che risultava invisibile fino a quando non incontrava un ostacolo, dopo di che si manifestava con effetti percettibili.

In particolare questo “qualcosa” aveva le seguenti proprietà, indipendentemente dal materiale che costituiva il catodo e dal tipo di gas utilizzato:

• Veniva emesso perpendicolarmente al catodo, indipendentemente dalla posizione dell’anodo e viaggiava in linea retta.
• Produceva reazioni chimiche.
• Provocava fluorescenza e fosforescenza.
• Provocava un’ombra di qualsiasi oggetto posto sul suo percorso.
• Veniva deflesso da un campo magnetico.
• Esercitava effetti meccanici.

Nelle figure seguenti sono riportati i dispositivi con i quali si riuscì a stabilire alcune di queste proprietà.

La fig. 4 riguarda la deflessione in campo magnetico. Se il tubo di scarica, con gli elettrodi posti ai due estremi, veniva collocato tra i poli di un elettromagnete, la traiettoria di questo “qualcosa” proveniente dal catodo, che in assenza di campo magnetico era rettilinea, in presenza del campo diventava curva. Le due figure si riferiscono rispettivamente al caso in cui l’elettrodo a sinistra era l’anodo, oppure il catodo.

3 Due teorie contrapposte

Riguardo alla natura di questo “qualcosa” proveniente dal catodo e sempre presente nei processi di scarica in un gas rarefatto, a partire dal 1870 si assistette all’emergere di due ipotesi contrapposte. Da un lato vi era la cosiddetta “teoria ondulatoria”, introdotta per la prima volta da J. W. Hittorf nel 1869 e sostenuta prevalentemente da fisici di scuola tedesca, la quale, considerava questo “qualcosa” come un moto vibratorio nell’etere, una sorta di onde elettromagnetiche di lunghezza d’onda molto corta, emesse perpendicolarmente al catodo. Da qui il termine “raggi catodici”, introdotto da Goldstein nel 1879, per indicare questo qualcosa. Con questa concezione i fenomeni di fosforescenza risultavano immediatamente spiegati (era noto infatti che i raggi ultravioletti, non a caso chiamati raggi fosforogenici, avevano questa proprietà); anche le proprietà meccaniche non presentavano difficoltà, purché si fosse ammesso con Maxwell che un’onda luminosa esercitava una pressione sugli ostacoli che incontrava. Ciò che, invece, risultava incompatibile con una tale concezione era la deflessione subita dai “raggi catodici” in presenza di un campo magnetico.

Fu proprio per spiegare quest’ultima proprietà che, a distanza di pochissimi anni dalla proposta di Hittorf, venne avanzata una nuova ipotesi sulla natura dei raggi catodi, alternativa a quella “ondulatoria”: la cosiddetta “teoria materialista”, sostenuta prevalentemente dai fisici di scuola inglese e francese.

Nel 1871 Varley, basandosi sul fatto che i raggi catodici, oltre che esercitare effetti meccanici, venivano deflessi da un campo magnetico nello stesso verso in cui sarebbe stata deflessa una carica negativa, propose di descrivere tali raggi in termini di “particelle materiali cariche negativamente”. Varley, comunque non entrò nello specifico della natura e dell’origine di queste “particelle”: egli semplicemente ne postulò l’esistenza. Questo problema venne, invece, affrontato da Crookes nel 1879 e momentaneamente risolto da A. Schuster nel 1884, ipotizzando che, analogamente ai processi elettrolitici, nei gas rarefatti, in presenza del forte campo esistente tra gli elettrodi, le molecole del gas si scindessero in ioni positivi e ioni negativi e che i “raggi catodici” non fossero altro che gli ioni negativi, i quali, respinti dal catodo, si dirigevano ad alta velocità verso l’anodo.

Ovviamente la teoria “materialista”, così come era nata, si trovava in netta contrapposizione con la “teoria ondulatoria”. Non a caso, tra queste due teorie si instaurò immediatamente un rapporto conflittuale, che venne giocato essenzialmente sul piano sperimentale, nel senso che ogni esperimento progettato e realizzato per caratterizzare i “raggi catodici” veniva caricato da chi lo proponeva del potere di discriminare tra queste due ipotesi teoriche.

Comunque, nonostante questa pretesa, posta come premessa alla realizzazione di ciascun esperimento effettuato, nessun esperimento ebbe la forza di chiudere il dibattito tra queste due teorie (entrambe le teorie, infatti, erano sbagliate!).

Di fatto, tale dibattito proseguì fino al 1897 e proseguì proprio sul piano sperimentale, risolvendosi alla fine con l’emergere di una terza teoria, che, pur prendendo le mosse dalla “teoria materialista”, alla fine la superava completamente, ovvero con la nascita della “teoria corpuscolare” o dell’”elettrone”, come fu in seguito chiamata.

4 Hertz all’opera

Senza entrare nello specifico di tutti gli esperimenti realizzati negli ultimi due decenni dell’Ottocento, ci limitiamo a ricostruire la fase più acuta del confronto tra la “teoria ondulatoria” e la “teoria materialista”, aperta da H. Hertz nel 1887, con la realizzazione di una serie di esperimenti concepiti nell’ambito della “teoria ondulatoria”. Con questi esperimenti Hertz raggiunse, seppur momentaneamente, due obiettivi molto importanti. In primo luogo riuscì a trovare un’interpretazione, nell’ambito della “teoria ondulatoria”, alla deflessione dei raggi catodici in presenza di un campo magnetico. In secondo luogo demolì l’ipotesi-base della “teoria materialista” secondo cui i raggi catodici erano di natura elettrica.

Per quanto riguarda il primo obiettivo, Hertz studiava l’eventuale azione dei raggi catodici su un ago magnetico e ricavava che questa azione era nulla (a posteriori possiamo dire che questo risultato era dovuto alla scarsa sensibilità della strumentazione usata). Pertanto, secondo Hertz, la deflessione dei raggi catodici in presenza di un campo magnetico non doveva essere interpretata come un’azione del magnete sui raggi, perché in questo caso, per simmetria, ossia per il principio di azione e reazione, avrebbe dovuto esserci un’azione dei raggi sull’ago, azione in realtà non osservata. L’interpretazione che, secondo Hertz, doveva, quindi, essere data alla deflessione dei raggi in campo magnetico era che il campo magnetico provocava un’azione sul mezzo (l’etere) e che nel mezzo magnetizzato i raggi catodici non si propagavano nello stesso modo in cui si sarebbero propagati in un mezzo non magnetizzato.

“Questa affermazione – scriveva Hertz – si accorda con il fenomeno sopra menzionato (azione nulla dei raggi catodici sull’ago magnetico) e ci evita molte difficoltà. Essa suggerisce un’analogia tra la deflessione dei raggi e la rotazione del piano di polarizzazione della luce in un mezzo non magnetizzato”.

Per quanto riguardava la natura elettrica dei raggi catodici prevista dalla “teoria materialista”, Hertz verificava se questi raggi possedevano proprietà elettrostatiche, ossia:
1. Se trasportavano una carica.
2. Se venivano deviati da un campo elettrico.

Nella fig. 7 è schematizzata l’apparecchiatura usata da Hertz per rivelare l’eventuale carica trasportata dai raggi catodici. Il tubo a vuoto era posto dentro ai due cilindri coassiali, $\beta$ e $\gamma$. Il cilindro più interno $( \gamma )$ era collegato a “una coppia di quadranti di un elettroscopio molto sensibile” e fungeva da rivelatore di carica, mentre quello più esterno $( \beta )$ serviva da schermo. Se i “raggi catodici” trasportavano una carica, questa, secondo Hertz, avrebbe dovuto essere comunicata per induzione, tramite il cilindro interno $( \gamma )$, all’elettroscopio e da questo rivelata.

Invariabilmente, però, come aveva modo di constatare azionando la scarica, e contrariamente a ogni aspettativa della “teoria materialista”, nessuna carica veniva segnalata dall’elettroscopio.

Per verificare, infine, se i raggi catodici venivano deviati da un campo elettrico, Hertz faceva passare i raggi catodici tra due lamine metalliche parallele (che fungevano come le armature di un condensatore) poste all’interno di un tubo a vuoto e connesse a una batteria di accumulatori. Hertz non riportava nessuna figura dell’apparato usato. Secondo Hertz, i raggi catodici, se erano davvero sensibili all’azione di un campo elettrico, passando attraverso le due lamine, avrebbero dovuto risultare deflessi. In particolare la macchia fosforescente che segnalava il punto di impatto dei raggi catodici con la parete del tubo sarebbe dovuta risultare spostata, rispetto alla posizione assunta in assenza di campo elettrico, verso l’alto o verso il basso a seconda della polarità del campo. Nell’esperimento di Hertz, però, contrariamente a queste previsioni della “teoria materialista”, nessun spostamento della macchia fosforescente era visibile.

Di fronte a questi risultati, ovvero una volta dimostrata l’inesistenza di proprietà elettrostatiche associate ai raggi catodici, Hertz così chiudeva la discussione sulla natura dei raggi catodici: “I raggi catodici non possono essere costituiti da particelle cariche. [...] Essi sono soltanto un fenomeno che accompagna la scarica e non hanno nulla a che fare direttamente con il percorso della corrente. Questi raggi sono elettricamente indifferenti e tra i fenomeni oggi conosciuti, quello che più è loro simile è dato dalla luce”.

5 Perrin: l’“uovo di Colombo”

Gli esperimenti di Hertz, nonostante il carattere decisivo a loro attribuito da Hertz e dagli altri sostenitori della “teoria ondulatoria”, non ebbero comunque la forza d chiudere il dibattito tra “teoria materialista” e “teoria ondulatoria”. Tutt’altro. Tale dibattito non solo proseguì, ma proseguì proprio sulla base delle problematiche toccate dagli esperimenti di Hertz, portando alla fine a risultati diametralmente opposti a quelli fino ad allora ottenuti.

I sostenitori della “teoria materialista”, infatti, da un lato non accettarono l’interpretazione data da Hertz alla deflessione dei raggi catodici in presenza di un campo magnetico, in quanto, come veniva osservato da più parti, una tale spiegazione implicava l’ipotesi ad hoc che l’etere avesse una struttura granulare legata al campo magnetico, il che non sembrava accettabile.

Dall’altro lato, i risultati sperimentali ottenuti da Hertz potevano essere inglobati anche nella “teoria materialista”, una volta che si fosse ammesso che negli esperimenti di Hertz un effetto non previsto oppure un fenomeno ancora sconosciuto mascherava in qualche modo le proprietà elettrostatiche associate ai raggi catodici, che di fatto dovevano esistere.

Ed è sotto questo aspetto, ossia con il fine preciso di ricercare ed eliminare eventuali effetti spuri presenti negli esperimenti di Hertz che, a nostro avviso, va interpretato l’esperimento di J. Perrin sul trasporto di carica. Perrin, nel 1895, rifaceva l’esperimento progettato da Hertz per verificare se i raggi catodici trasportavano una carica, apportandovi, però una variante, che ricorda, per la sua semplicità, “l’uovo di Colombo”: i due cilindri coassiali $\beta$ e $\gamma$, che nella disposizione sperimentale di Hertz (fig. 7) erano posti all’esterno del tubo, venivano messi all’interno del tubo, in modo da essere in contatto diretto con i raggi catodici, annullando così il loro assorbimento da parte del vetro e consentendo una misura diretta dell’eventuale carica da essi trasportata.

L’apparecchiatura usata da Perrin è schematizzata in fig. 8.

I due cilindri metallici ABCD e EFGH, di cui il più interno è collegato all’elettroscopio, mentre quello esterno è posto a terra, avevano due piccole aperture, $\alpha$ e $\beta$, in modo da consentire l’accesso all’interno di ABCD dei raggi catodici. Il catodo era costituito dall’elettrodo N, mentre l’anodo era rappresentato dal cilindro di protezione EFGH.

Con questa apparecchiatura Perrin poteva constatare che quando il fascio di raggi catodici penetrava all’interno del cilindro ABCD, “questo cilindro invariabilmente si caricava di elettricità negativa”, mentre, se il tubo veniva posto tra le espansioni polari di un elettromagnete, in modo che i raggi catodici non potessero più entrare nel cilindro ABCD, “questo cilindro non si caricava”. Così concludeva Perrin: “Il cilindro si carica negativamente quando i raggi catodici penetrano all’interno di esso e solamente quando vi penetrano: i raggi catodici sono, dunque carichi di elettricità negativa”.

6 Il tubo di Lenard

Mentre da un lato Perrin aveva mostrato, contrariamente a quanto ricavato da Hertz, e in accordo con la “teoria materialista”, che i raggi catodici trasportavano una carica, dall’altro lato contro la “teoria materialista” si era nel frattempo aggiunta una nuova obiezione, derivante da un’innovazione apportata nel 1894 in questo tipo di studi da P. Lenard, un allievo di Hertz e grande sostenitore della “teoria ondulatoria”.

Questa innovazione era di carattere strettamente sperimentale, ma con risvolti metodologici notevoli ed era volta a “studiare nel modo più pulito possibile la natura dei raggi catodici”.

Prima dell’intervento di Lenard i dispositivi per studiare i raggi catodici erano del tipo visto in precedenza, in cui i raggi catodici venivano prodotti da una scarica elettrica tra il catodo e l’anodo all’interno di un tubo a vuoto, e venivano studiati attraverso le proprietà che essi manifestavano all’interno del tubo. In altri termini, la sede di produzione dei raggi coincideva con la sede di osservazione.

Era, insomma, per citare un’analogia fatta da Lenard, “come se si studiasse la luce esclusivamente all’interno delle fornaci e delle fiamme dove veniva prodotta, senza osservarla libera dai processi complessi e ancora inspiegati della sua formazione”.

Con l’intervento di Lenard questo approccio mutò. Basandosi su di una osservazione di Hertz del 1892, secondo cui i raggi catodici erano in grado di attraversare sottili film metallici, Lenard progettò un nuovo tipo di tubo a vuoto (fig. 9) in cui la parete del tubo di fronte al catodo, dove i raggi catodici, in condizioni normali, si arrestavano, veniva sostituita con una lamina metallica, non a caso chiamata “finestra”, che i raggi catodici erano in grado di attraversare (nel caso dell’alluminio, gli spessori usati erano di circa 0.003 mm).

Nel tubo di Lenard il catodo (C) era un disco di alluminio e l’anodo (A) un tubo metallico che circondava in parte il catodo. GG era una scatola metallica, in cui veniva isolato il tubo. Diminuendo la pressione fino a valori tali per cui i raggi catodici raggiungevano la finestra, questi si propagavano all’esterno del tubo ed era così possibile ottenere raggi catodici “in aria aperta”. In queste condizioni, fuori dal tubo e a pressione atmosferica, essi riuscivano a percorrere cammini addirittura di circa 10 cm.

L’innovazione di Lenard ebbe delle grosse implicazioni. Infatti, una volta isolato il fenomeno, cioè isolati i raggi catodici, Lenard potè avviare uno studio sistematico sulle loro proprietà. Tra l’altro, riuscì a mostrare che essi erano in grado di attraversare spessori che si sapeva essere inattraversabili dagli atomi (ad esempio spessori che, come era stato verificato sperimentalmente, erano in grado di contenere idrogeno o un altro gas da un lato, e un buon vuoto dall’altro lato). Alla luce di questi risultati, secondo Lenard e secondo i sostenitori della “teoria ondulatoria”, i raggi catodici non potevano essere considerati, come richiesto dalla “teoria materialista”, atomi o molecole ionizzati, ma dovevano essere considerati onde.

Era questa la situazione del dibattito sui raggi catodici quando W. C. Roentgen, alla fine del 1895, annunciava la scoperta dei raggi X, scoperta questa strettamente collegata all’invenzione del tubo di Lenard.

7 Esperimenti rifatti, risultati capovolti: la deflessione in campo elettrico

Quella dei raggi X fu forse la prima scoperta in Fisica che ebbe risonanza pubblica e occupò le testate dei giornali. Le prime fotografie delle ossa di una mano, e di altri oggetti non visibili a occhio nudo, subito chiamate “radiografie”, incominciarono a girare per tutto il mondo (fig. 10), assieme alla consapevolezza che, grazie a questi nuovi raggi così particolari, si era ormai aperta la possibilità per l’uomo di “vedere l’invisibile” e di aprire nuovi campi di ricerca, soprattutto in medicina.

Per la produzione dei raggi X venne subito brevettato un apparecchio, progettato sulla falsa riga di quello con cui erano stati scoperti, costituito da un tubo a vuoto in cui il catodo (C) era uno schermo concavo di alluminio e l’anodo (A), da cui provenivano i raggi X, una lamina di platino posta nel suo fuoco, inclinata di 45° rispetto all’asse del catodo (fig. 11).

In quel periodo J. J. Thomson (fig. 12), eletto dal 1884 direttore del Cavendish Laboratory di Cambridge (in precedenza i direttori furono J. C. Maxwell, 1874-1879 e Lord Rayleigh, 1879-1884), stava portando avanti un programma di ricerca il cui obiettivo era quello di individuare, mediante lo studio dei gas rarefatti in presenza di una scarica elettrica, le correlazioni fondamentali tra le leggi dell’elettromagnetismo e la struttura della materia. Appena venuto a conoscenza della scoperta di Roentgen, il suo interesse si volse immediatamente all’applicazione di questi raggi così penetranti al proprio campo specifico di ricerca.

Riferisce Thomson: “Io ebbi una copia dell’apparecchio (per raggi X) messo a punto nel Laboratorio e la prima cosa che feci fu quella di verificare che effetto produceva il passaggio di questi raggi attraverso un gas”.

Tramite una serie di esperimenti, riuscì a stabilire che l’effetto prodotto dai raggi X era quello di “rendere il gas un buon conduttore di elettricità”, aprendo così la via che lo avrebbe portato alla scoperta dell’elettrone.

Thomson, infatti, poneva un’analogia di comportamento tra i raggi X e i raggi catodici, ovvero se anche i raggi catodici erano in grado di rendere il gas un buon conduttore di elettricità, il risultato ottenuto da Hertz secondo cui i raggi catodici non venivano deflessi da un campo elettrico, poteva essere dovuto alla conducibilità del gas prodotta dal passaggio dei raggi catodici, la quale in qualche modo aveva mascherato il campo. Ossia la deflessione, nell’esperimento di Hertz, era nulla perché il campo era reso nullo.

Thomson cercò allora di verificare sperimentalmente se i raggi catodici avevano la proprietà di rendere conduttore il gas e, in caso affermativo, se esisteva una correlazione tra la conducibilità del gas e il grado di vuoto. I risultati che Thomson ottenne dimostravano che esisteva una conducibilità del gas provocata dai raggi catodici, la quale diminuiva “molto rapidamente all’aumentare del grado di vuoto”.

Commentava Thomson: “Sembra dunque che portando l’esperimento di Hertz ad un alto grado di vuoto, vi possa essere la possibilità di rivelare la deflessione dei raggi catodici da parte di una forza elettrostatica”.

A questo punto rifaceva l’esperimento di Hertz, impiegando però pressioni molto basse (purtroppo Thomson non indica mai i valori della pressione utilizzata) e impiegando l’apparato schematizzato in fig. 13.

I raggi provenienti dal catodo C, dopo aver attraversato due fenditure praticate in due tappi metallici, il primo dei quali (A) fungeva da anodo, passavano tra due placche di alluminio parallele spaziate di 1.5 cm, larghe 2 cm e lunghe 5 cm e raggiungevano quindi l’estremità del tubo “dove producevano una piccola macchia fosforescente a contorni netti”.

In fig. 14 è riprodotta la fotografia del tubo originale di Thomson, conservato al Natural History Museum di Londra.

Così operando, Thomson finalmente riusciva ad osservare l’effetto la cui esistenza era stata negata da Hertz, e non solo da lui (anche Thomson in precedenza aveva tentato di vedere la deflessione, ma senza riuscirvi). Così Thomson riassumeva i propri risultati: “In condizioni di vuoto molto spinto, non appena le due placche di alluminio venivano connesse ai terminali di una piccola batteria di accumulatori, i raggi venivano deflessi: essi si abbassavano quando la placca superiore era connessa al polo negativo della batteria e la placca inferiore al polo positivo, mentre si alzavano quando la placca superiore era connessa al polo positivo e la placca inferiore a quello negativo. La deflessione risultava proporzionale alla differenza di potenziale tra le placche ed ho potuto osservarla anche quando la differenza di potenziale era di appena 2 Volt. Soltanto quando il vuoto è buono si ha la deflessione”.

Anche se era riuscito finalmente a dimostrare che i raggi catodici erano deflessi da un campo elettrico, Thomson, però non si accontentava e rifaceva gli esperimenti, in precedenza fatti da altri, sul trasporto di carica e sulla deflessione in campo magnetico, cercando di renderli ineccepibili dal punto di vista sperimentale, e confermava tutti i risultati fino ad allora ottenuti.

8 Verso una terza teoria

Nella tabella 1 ho cercato di schematizzare la situazione relativa alle basi empiriche delle due teorie, quella “ondulatoria” e quella “materialista”, rispettivamente nel periodo dal 1871 al 1891, negli anni dal 1891 al 1897 e infine nell’anno 1897, indicando sotto ognuna i dati che riuscivano a spiegare. L’insieme di dati sperimentali spiegati da entrambe le teorie (tipo gli effetti meccanici, l’ombra, etc.) è indicato con un asterisco. Chiaramente i dati sperimentali spiegati da una teoria (e non dall’altra) rappresentavano dati anomali per la teoria contrapposta; essi comunque facevano parte delle basi empiriche di entrambe le teorie, o come fatti comprovanti o come fatti anomali e sono stati contrassegnati con $a_m$ se anomalie della “teoria materialista”, oppure $a_{o}$ se anomalie della “teoria ondulatoria”.

Come si vede, fino al 1897, le basi empiriche delle due teorie risultavano “qualitativamente equivalenti”, nel senso che entrambe le teorie, seppure parzialmente, risultavano verificate. È interessante osservare lo spostamento di dati empirici relativi ad una stessa proprietà da una teoria all’altra, ad esempio il dato sul trasporto di carica che, nel giro di vent’anni viene capovolto, passando da “nessun trasporto di carica” a “trasporto di carica negativa”, oppure quello sulla “deflessione in campi elettrici” che si trasforma, addirittura nel giro di trent’anni, da “nessuna deflessione” a “deflessione”, il che, a posteriori ci mostra come sia facile fare un esperimento affetto da un errore sistematico o di progettazione, in seguito identificato e corretto.

Nel 1897 la situazione dall’interno delle basi empiriche delle due teorie cambia. Il bilancio diventa nettamente a favore della “teoria materialista”, ovvero le “previsioni” di questa teoria, prese globalmente, risultano “meglio controllate”.

A questo riguardo osservava Thomson nel 1897: “Dal momento che i raggi catodici trasportano una carica negativa, sono deflessi da una forza elettrostatica come se fossero elettrizzati negativamente e sono influenzati da una forza magnetica nello stesso modo in cui un corpo elettrizzato negativamente che si muove lungo il percorso di questi raggi dovrebbe essere influenzato da tale forza, non vedo come si possa sfuggire alla conclusione che sono particelle di materia cariche negativamente”.

Questo comunque, per Thomson, non significava l’accettazione della “teoria materialista” così come era stata fino a quel momento intesa. Contro questa teoria, infatti, sussisteva sempre l’obiezione di Lenard secondo cui i raggi catodici passavano attraverso spessori inattraversabili dagli atomi, oltre il fatto che provocavano fosforescenza, proprietà questa mai vista prima da parte degli atomi o delle molecole.

Di qui il nuovo quesito che si poneva Thomson: “Sorge ora la questione. Che cosa sono queste particelle? Sono atomi, sono molecole, oppure sono materia in uno stato di suddivisione ancora più fine?”.

Per rispondere la via intrapresa da Thomson fu quella di determinarne il rapporto massa/carica.

9 Il “corpuscolo”

Per questa misura Thomson utilizzava due metodi sperimentali diversi. Il primo metodo sfruttava la deflessione dei raggi catodici sia in campo elettrico, che in campo magnetico. L’apparato usato è sempre quello mostrato in fig. 13.

Un campo magnetico $B$ (di valore fissato) era applicato perpendicolarmente al percorso dei raggi catodici, mentre un campo elettrico $E$ (variabile) veniva posto tra le lastre D ed E. In queste condizioni, indicando con $e$ ed $m$ rispettivamente la carica e la massa delle particelle che componevano i raggi catodici, la forza elettrica $F_{el}$ agente su ciascuna particella risultava $F_{el} = E_{e}$ mentre la forza magnetica $E_{ma}$ risultava $F_{ma} = ev B$. A questo punto veniva fatto variare il campo elettrico $E$, fino a un valore $E_{0}$ in corrispondenza del quale i raggi catodici tornavano alla loro posizione indeflessa. In questo caso si aveva che $F_{el} = F_{ma}$, ossia $E_{0}e = ev B$ da cui si ricavava

(1) $ v = E_{0} / B$.

Thomson toglieva, allora, il campo elettrico. In queste nuove condizioni si aveva solo la forza magnetica $F_{ma}$ la quale si comportava come una forza centripeta $(F_{centr} )$ ossia $F_{ma} = F_{centr}$ da cui, indicando con $R$ il raggio di curvatura dei raggi

(2) $ ev B = mv^{2} / R$.

Combinando la (1) con la (2) Thomson ricavava la seguente espressione per il rapporto massa/carica, in cui erano presenti esclusivamente grandezze misurabili, e che quindi permetteva una stima di $m/e$:

(3) $ m/e = B^{2}R/E_{0} $.

Nel secondo metodo per ricavare il rapporto $m/e$ Thomson sfruttava solo la deflessione dei raggi catodici in campo magnetico e faceva l’assunto che tutta l’energia cinetica dei raggi $( W )$, nell’impatto con un corpo solido, si trasformasse in calore, e che quindi potesse essere facilmente misurabile. Detto $N$ il numero di particelle di massa $m$, di carica e e di velocità $v$ che passavano attraverso una sezione del fascio in un dato tempo, la quantità $Q$ di elettricità trasportata risultava

(4) $ Q=Ne $,

mentre la loro energia cinetica $W$ risultava

(5) $ W=\frac{1}{2} ( Nmv^{2}) $.

Applicando un campo magnetico perpendicolarmente alla direzione dei raggi, su di essi veniva esercitata una forza magnetica, $evB$, che era uguale a una forza centripeta, cioè

(6) $ evB = mv^{2}/R $,

dove $R$ era il raggio di curvatura dei raggi. Combinando tra di loro queste relazioni, Thomson ricavava per $v$ e per $m/e$ le seguenti espressioni, che contenevano tutte grandezze misurabili:

$ v=2W/QBR $ e $m/e = B^{2}R^{2}Q/2W$.

Per misurare $Q$ e $W$ Thomson utilizzava un tubo del tipo di fig. 13 (senza, però, il campo elettrico) in cui alla sua estremità erano fissati due cilindri coassiali, analoghi a quelli dell’esperimento di Perrin (fig. 8), in cui erano state effettuate due fenditure in modo che i raggi catodici potessero entrare al loro interno.

La misura di $Q$ veniva realizzata collegando il cilindro interno a un elettrometro, la cui deflessione ne dava il valore, mentre la misura di $W$, nell’ipotesi che $W$ si trasformasse tutta in calore, veniva fatta ponendo dietro alla fenditura del cilindro interno, dove arrivavano i raggi, una termocoppia.

Questa seconda misura di $m/e$, a differenza della precedente, non sfruttava la deflessione dei raggi catodici in campo elettrico e quindi Thomson avrebbe potuto effettuarla molto tempo prima del 1897.

Perché non ci ha provato? La ragione certamente era che prima di procedere a una stima del rapporto massa/carica di queste ipotetiche particelle era necessario essere sicuri sulla loro natura e questo non era possibile senza aver dimostrato la loro deflessione in campo elettrico. Solo dopo aver dimostrato tutte le loro proprietà elettrostatiche, Thomson procedeva a una stima del loro rapporto massa/carica, non prima!

Attraverso questi due metodi sperimentali, Thomson otteneva per il rapporto $m/e$ un valore dell’ordine di 10–7 g/u.e.m. Da notare che il valore attuale, espresso nelle stesse unità di misura, è pari a 0.6×10–7 g/u.e.m.

Nella tabella 2, terza colonna, sono riportati i valori ottenuti da Thomson usando tre tubi diversi nella forma, nel materiale, nel valore della pressione e contenenti gas differenti.

Come si vede, il valore di $m/e$ risultava pressocchè uguale, dell’ordine di 10–7 g/u.e.m. (cioè nel range 0.5–1.0×10–7 g/u.e.m.) indipendentemente dal materiale del catodo, dal tipo di gas e dalla pressione utilizzata. Questo era già un risultato stupefacente, perché in base alla “teoria materialista” il rapporto massa/carica, riguardando gli ioni del gas, avrebbe dovuto avere un valore differente a seconda della sostanza usata.

Inoltre, come sottolineava Thomson, questo rapporto risultava molto piccolo rispetto al valore 10–4 g/u.e.m. che rappresentava il valore più piccolo fino ad allora noto per uno ione e che corrispondeva al valore dello ione idrogeno.

Comunque, quest’ultimo risultato, di per se stesso, senza cioè una determinazione separata della massa o della carica, non dava molte informazioni. Esso, infatti, poteva essere interpretato in modi diversi: o che la massa di queste nuove particelle fosse molto piccola rispetto alla massa dello ione idrogeno, o che la loro carica fosse molto grande, oppure con entrambe le ipotesi.

Una scelta tra queste tre alternative, secondo Thomson, era però possibile, ed era possibile proprio grazie agli esperimenti di Lenard del 1894 sull’assorbimento dei raggi catodici.

Come osservava Thomson, le misure di Lenard sull’assorbimento dei raggi catodici in aria a una pressione di 0.5 atm, una volta accettata l’ipotesi che i raggi catodici erano particelle, mostravano che il loro libero cammino medio risultava pari a 0.5 cm, mentre nelle stesse condizioni, il libero cammino medio delle molecole d’aria risultava, in base alla teoria cinetica dei gas, pari a 2×10–5 cm, ossia “di un ordine completamente diverso”. Di conseguenza, secondo Thomson, bisognava riconoscere che “le particelle che compongono i raggi catodici sono molto più piccole delle molecole ordinarie”.

Dal momento poi che il loro rapporto massa/carica era costante, indipendentemente dai materiali usati e dalla pressione, Thomson giungeva alla conclusione che l’atomo era una struttura complessa e divisibile, non solo “fatta di parti uguali” (ipotesi per altro già adottata in Chimica da W. Prout, da J. Dumas, da J. de Marignac, e da altri che consideravano i vari atomi composti dall’atomo di idrogeno o da suoi sottomultipli) ma che queste “parti uguali” erano anche cariche e che i raggi catodici rappresentavano “una di queste parti cariche che ha lasciato l’atomo”.

A questo componente atomico di carica negativa (che diventerà poi il nostro “elettrone”), Thomson dava il nome di “corpuscolo”, chiudendo così il dibattito tra la ”teoria ondulatoria” e la “teoria materialista”. Scriveva Thomson: “Noi troviamo nei raggi catodici un nuovo stato della materia, uno stato in cui tutta la materia – cioè materia derivata da sorgenti diverse, quali idrogeno, ossigeno, etc. – è di un unico tipo, essendo questa materia la sostanza che compone tutti gli elementi chimici. [...] Se nel campo molto intenso presente nei dintorni del catodo, le molecole vengono scisse non nei comuni atomi chimici, ma in questi atomi primordiali, che per brevità chiameremo corpuscoli e se questi corpuscoli sono carichi negativamente così che vengono proiettati dal campo elettrico lontano dal catodo, essi dovrebbero avere un valore del rapporto massa/carica che è indipendente dalla natura e dalla pressione del gas, come di fatto si è dimostrato”.

Si può dire che questa è la prima definizione dell’elettrone della Storia. A Thomson nel 1906 verrà conferito il Premio Nobel per la Fisica, “in riconoscimento dei grandi meriti delle sue indagini teoriche e sperimentali sulla conduzione dell’elettricità da parte dei gas”. L’anno prima, il Premio era stato assegnato a Lenard “per il suo lavoro sui raggi catodici.”

È significativo quanto Lenard, consapevole di aver perso una grossa scoperta, riporta nella sua Nobel Lecture: “Parlerò ora non solo dei frutti, ma anche degli alberi che li hanno prodotti e di coloro che hanno piantato questi alberi. Questo approccio è il più adatto nel mio caso, poiché non sono mai stato annoverato tra coloro che hanno colto i frutti. Sono stato più volte solo uno di coloro che hanno piantato o curato gli alberi, o che hanno contribuito a farlo”.

Una volta stabilito che i “corpuscoli” sono particelle subatomiche molto più piccole dell’atomo di idrogeno, nasceva immediatamente per Thomson un nuovo problema:
“Quanto sono più piccole dell’atomo di idrogeno?”

Per rispondere, Thomson, tra il 1897 e il 1899, si impegnava su un programma di ricerca volto a giungere a una misura di carica, specifica per il “corpuscolo”. Questa sarà una misura molto complessa, che riuscirà a realizzare, grazie alle competenze accumulate presso il Cavendish Laboratory di Cambridge, soltanto nel 1899 e che lo porterà a una stima di $e$ pari a 2.3×10–20 u.e.m. e di conseguenza, noto il rapporto $m/e$, a una stima della massa del “corpuscolo” pari a $m=10^{–27}$ g.

In questo modo, attraverso una misura della carica del “corpuscolo”, anche questa, la prima realizzata nella Storia, Thomson riusciva a ottenere, come scriveva a E. Rutherford nel luglio del 1899 “una prova diretta dell’esistenza di masse pari soltanto a 1/1000 della massa dello ione idrogeno” e a confermare quanto già sostenuto nel 1897 e cioè che:
“Nella convezione di elettricità negativa a bassa pressione noi abbiamo qualcosa di più piccolo anche dell’atomo, qualcosa che implica la frammentazione dell’atomo, così che noi riusciamo a prendere da esso una parte, seppure molto piccola, della sua massa”.

E così, con la scoperta di un primo costituente atomico, Thomson chiudeva la sua grande avventura con i raggi catodici.

Come è noto, la scoperta del “corpuscolo” ebbe notevoli ripercussioni e aprì nuove linee di ricerca. In particolare il “corpuscolo” venne subito identificato come la grandezza fondamentale con cui esprimere i fenomeni collegati all’interazione tra radiazione e materia; le proprietà della materia apparvero di colpo spiegabili riconducendole al numero e alla distribuzione dei “corpuscoli” all’interno dei vari atomi chimici e l’atomo stesso apparve contenere qualcosa in più, oltre ai “corpuscoli”, qualcosa di positivo che ne garantisse la neutralità elettrica e che poi diventerà il nucleo.

Tutte queste prospettive di ricerca, una volta avviate, andarono a costituire i tanti capitoli di quel “nuovo volume” della Fisica, citato da O. Lodge, che ancora adesso è in via di realizzazione e che noi ora chiamiamo Fisica Atomica.

Un’ultima questione. Perché Thomson chiama queste particelle subatomiche, che ora chiamiamo “elettroni”, “corpuscoli”?

In realtà, nel 1897, la parola “elettrone” esisteva già. Essa era stata coniata da G. Stoney nel 1891 per indicare “la quantità definita di elettricità tramite la quale, o tramite multipli interi di essa, gli atomi si combinano chimicamente tra di loro” e che “si rende evidente nei processi elettrolitici, quando le molecole dell’elettrolita, sotto l’azione del campo elettrico, si separano in ‘ioni positivi’ e ‘ioni negativi’”.

A questa conclusione Stoney era giunto già nel 1874, attraverso una particolare lettura delle leggi di M. Faraday sull’elettrolisi (1833) fatta alla luce della teoria della valenza di F. Kekulé (1860). Alla stessa conclusione e attraverso la stessa strada giungerà anche H. von Helmoltz nel 1881. Stoney, però, a differenza di Helmholtz, sulla base della teoria cinetica (che gli consentiva di calcolare il numero di Avogadro e quindi la massa dell’atomo d’idrogeno) e utilizzando il valore dell’equivalente elettrochimico dell’acqua a quel tempo disponibile, riusciva a stimarne il valore. Esso risultava pari a $1.03 \times 10^{–21}$ u.e.m. Nuove stime furono fatte successivamente da altri e tutte con valori tra 4.71×10–21 e 4.31×10–21 u.e.m.

Dunque, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il concetto di “carica unitaria” o “elettrone”, e con esso il concetto di “ione” inteso come “atomo di materia con la sua carica” facevano parte del linguaggio scientifico.

Comunque un conto era supporre che gli atomi o le molecole contenessero una o più “cariche unitarie” o “elettroni”: questa non era altro che una proprietà atomica, che stava alla base dei legami chimici e dei fenomeni elettrolitici. Da questo punto di vista, l’atomo era certamente una struttura complessa, ma indivisibile. Un altro conto, invece, era supporre, come aveva fatto Thomson nel 1897, che l’atomo non solo era formato da particelle di materia cariche – i “corpuscoli” – ma che si poteva addirittura scindere in queste particelle subatomiche. In questo caso l’indivisibilità dell’atomo, che fino ad allora non era mai stata messa in discussione, era automaticamente violata e, come sottolineava G. Fitzgerald, si doveva prendere in considerazione la possibilità della “trasmutazione della materia”. Insomma, l’idea di Thomson della divisibilità dell’atomo era un’idea veramente rivoluzionaria e notevole nel contesto della Fisica di fine Ottocento.

È chiaro, dunque, che nel 1897 non vi erano ragioni per chiamare la nuova particella scoperta da Thomson “elettrone”. In altre parole, l’”elettrone” e il “corpuscolo” erano nate e continuavano a presentarsi come due entità non necessariamente connesse tra di loro e come tali dovevano essere trattate. È questa la ragione di fondo per la quale Thomson, di fronte al problema di definire fisicamente il “corpuscolo”, non ha attribuito alla sua nuova particella una carica uguale all’”elettrone” in modo da ricavare subito, dal rapporto massa/carica noto, il valore della sua massa, ma ha dovuto intraprendere tra il 1897 e il 1899 un programma di ricerca mirato a una misura di carica specifica per questa particella.

Solo alla fine di questo programma Thomson fu in grado di riconoscere che la carica del suo “corpuscolo” e l’“elettrone” avevano lo stesso valore e quindi erano collegati tra di loro.

Comunque, negli anni successivi il termine “elettrone”, forse a causa della sua notorietà, prevalse su quello di “corpuscolo”, nel senso che lo sostituì totalmente, inglobando in sé il significato di “costituente atomico di carica negativa”.

Ci possiamo chiedere, allora, quando Thomson abbandonò il termine “corpuscolo”, in favore di quello di “elettrone”.

È difficile rispondere con sicurezza, ma è un fatto che Thomson continuò a usare il termine “corpuscolo” per molti anni. Addirittura nel 1912, quando il termine convenzionale “elettrone” era già stato accettato da molto tempo dalla comunità scientifica, Thomson, nella dodicesima edizione del suo famoso trattato “Conduction of Electricity through Gases” usava solo il termine “corpuscolo”. Ancora nel 1913, durante la conferenza di apertura al Congresso Solvay continuava ad usare soltanto il termine “corpuscolo”, forse per far sì che un pezzo di storia non venisse cancellato, o per lo meno per enfatizzare quanto, nella fase iniziale, il “corpuscolo” avesse giocato un ruolo innovativo nel panorama della fisica di fine Ottocento e quanto fossero storicamente diversi i termini “corpuscolo” ed “elettrone”.