Guido Horn d'Arturo: progenitore dei telescopi a specchi multipli con ottica attiva

Fabrizio Bònoli


1 1928: il telescopio più grande del mondo

Correva l’anno 1928. L’economia è in ampia crescita e, grazie a un finanziamento di sei milioni di dollari da parte della Rockefeller Foundation, George Ellery Hale, l’astronomo fondatore dell’Osservatorio di Mount Wilson dove aveva realizzato il più grande telescopio dell’epoca da 2,5 m di diametro, può dare inizio al gigantesco progetto di un telescopio due volte più grande, 5 m, da installare sulla Palomar Mountain.

Ma è in agguato la bolla azionaria di Wall Street che in meno di un anno porta alla Grande depressione che si estende rapidamente in tutto il mondo. Con il forte calo della produzione industriale e il pesante aumento della disoccupazione, la crisi colpisce anche l’Italia, già impegnata nella restaurazione conservatrice fascista.

Il campo culturale nella penisola è dominato da Benedetto Croce e Giovanni Gentile che, con la riforma scolastica del 1923, aveva condannato a un ruolo subalterno quelle scienze che “aggravano lo spirito e tolgono il respiro e fanno sentire all’anima il freddo della morte”. Come possono allora le ricerche astronomiche italiane, che peraltro non portano alcun immediato vantaggio pratico al “radioso futuro della Nazione”, essere competitive con quegli sviluppi in atto negli altri Paesi che necessitano di nuovi strumenti e grandi investimenti tecnici ed economici?

2 Il protagonista: un astronomo triestino a Bologna

È qui che entra in scena il nostro protagonista, Guido Horn (1879-1967), un triestino di origine ebraica, direttore del Regio Osservatorio Universitario di Bologna dal 1921 e cattedratico di Astronomia, sulla cui biografia meritano di essere spese alcune parole (fig. 1).

Orfano del padre a soli due anni, Guido – Elhanan Gad era il suo nome ebraico – cresce con i due fratelli nella casa del nonno materno, Raffaele Sabato Melli, rabbino capo e persona autorevole della comunità ebraica di Trieste. Compie gli studi universitari a Graz e poi a Vienna, dove nel 1902 consegue il dottorato con una tesi sullo studio di orbite cometarie. La sua formazione avviene, quindi, in un contesto culturale pienamente mitteleuropeo. Prima nella Trieste “fin de siècle”, asburgica ma profondamente italiana, con la presenza di personalità (contemporanee di Horn o quasi) come Italo Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, Giani Stuparich, Rainer Maria Rilke, James Joyce (dal quale prende alcune lezioni private di inglese). Poi nella “felix” Vienna, miscela fertile di un gran numero di diverse culture e caratterizzata da un’innovativa creatività. Tutto questo contribuisce a formare il particolare e vasto orizzonte di interessi caratteristico di Horn, mentre la matrice ebraica influenzerà drammaticamente, come vedremo, alcune delle sue successive vicende personali.

Dopo la laurea, Horn viene assunto presso l’Imperial Regio Osservatorio Marittimo di Trieste. Pur suddito austriaco, tuttavia si sente profondamente italiano e nel 1907, su sua richiesta, diviene primo assistente presso l’Osservatorio Astrofisico di Catania. A quei tempi la mobilità nel pubblico impiego era elevata e così nel 1910 Horn viene trasferito, a seguito di concorso, all’Osservatorio di Torino. Gravi difficoltà di rapporti con il direttore Giovanni Boccardi lo spingono a spostarsi solo un anno dopo all’Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna, diretto da Michele Rajna, allievo di Giovanni Schiaparelli, dove consegue la libera docenza in Astronomia nel 1913. Qui gli si prospetta una brillante carriera, ma nel maggio del 1915 l’Italia entra in guerra e in meno di una settimana Horn lascia il posto all’Osservatorio e si arruola come volontario nel Regio Esercito Italiano (fig. 2). Aveva già fatto il servizio militare di leva nell’esercito austro-ungarico ma adesso, con questo cambio di divisa, diviene per gli austriaci un “disertore”. Per sfuggire alle rappresaglie contro coloro che per noi erano invece “irredentisti”, sostituisce il cognome con quello di “d’Arturo”, dal nome del padre e anche dal nome della stella più luminosa della costellazione del Boote.

Al termine del conflitto, ferito e insignito con la Croce di guerra, ottiene di aggiungere al proprio cognome quello di battaglia, divenendo così ufficialmente Guido Horn d’Arturo. Rientra nel suo ruolo all’Osservatorio di Bologna, ma nel 1920 viene trasferito all’Osservatorio Astronomico di Roma, dove tuttavia rimane poco tempo perché, con la morte di Rajna, viene richiamato nel 1921 a Bologna sulla cattedra di Astronomia e alla direzione dell’Osservatorio Universitario.

Molto ci sarebbe da dire sull’ampia attività svolta da Horn per promuovere la rinascita scientifica dell’Osservatorio. Questo era caduto nell’Ottocento in una profonda decadenza, dopo un brillante trascorso settecentesco, nel quale era stato ritenuto uno dei migliori osservatori astronomici, oltre che uno dei primi osservatori non privati d’Europa. Nato come Specola dell’Istituto delle Scienze nel 1711, contemporaneo a quello di Berlino fondato da Leibniz, era terzo dopo l’Observatoire Royal a Parigi (1667) e il Royal Observatory a Greenwich (1675).

Detto molto sinteticamente, Horn si occupa di astronomia di posizione e astronomia statistica, variabilità stellare, distribuzione spaziale delle nebulose – in tempi in cui ancora non si era certi della loro natura e dell’appartenenza o meno alla nostra Galassia – di strumentazione e di ottica astronomica e fisiologia della visione, discipline queste ultime nelle quali era particolarmente esperto. Inizia inoltre la serie delle “Pubblicazioni dell’Osservatorio”, per favorire un’ampia diffusione delle attività svolte. Organizza due spedizioni per studiare le eclissi di Sole, in Oltregiuba nel 1926 (fig. 3 e fig. 4) e in Peloponneso nel 1936. Con questi studi fornisce la prima spiegazione corretta dei fenomeni della “goccia nera” (dovuti ad effetti di astigmatismo) e delle “ombre volanti” (dovuti a turbolenza atmosferica).

Nel 1936 riesce a portare a termine il progetto, invano perseguito dal suo predecessore Rajna, di spostare le osservazioni astronomiche fuori dall’inquinamento luminoso e atmosferico del centro cittadino, realizzando la Stazione osservativa di Loiano, sull’Appennino bolognese. Quest’operazione è favorita da una ricca donazione di Bianca Montanari, vedova di Adolfo Merlani, matematico bolognese appassionato di astronomia, che consente di acquistare un telescopio riflettore Zeiss, del diametro di 60 cm, secondo per dimensioni in Italia (fig. 5).

I suoi vasti interessi culturali, di cui abbiamo detto, lo portano ad occuparsi dell’aggiornamento della biblioteca astronomica (a lui intitolata nel 1999) e del suo arricchimento con un gran numero di opere storiche, opportunamente selezionate nel mercato antiquario, e del primo riordino dell’archivio storico, che contiene oltre centomila documenti con osservazioni, lettere, disegni a partire dalla metà del Seicento. Compila diverse voci astronomiche e storiche per l’Enciclopedia Italiana, compresa la voce “Copernico” e quella “Astrologia”. Quest’ultima comparsa però anonima a seguito di un dissidio sulla sua negazione dell’astrologia come disciplina scientifica avuto con il direttore dell’Enciclopedia, Giovanni Gentile. Redige la “Piccola Enciclopedia Astronomica” e “Vita e opere degli astronomi: dai primitivi al secolo XIX” e si occupa personalmente anche della traduzione dal latino del “Poeticon Astronomicon” di Igino.

Un’impresa cui dedica gran parte della sua vita, fino alla morte nel 1967, è la rivista Coelum per la divulgazione dell’astronomia, da lui stesso fondata nel 1931 sotto l’egida della Società Astronomica Italiana; un’opera che ebbe una vasta diffusione nell’ambiente non solo amatoriale e che fu scuola di astronomia per molti giovani che poi si dedicheranno alla disciplina. La rivista, lasciata alla sua morte all’Università di Bologna, cesserà le pubblicazioni nel 1986.

3 1932: la geniale idea

Ora veniamo all’altro protagonista della nostra storia: il telescopio a tasselli. Come abbiamo detto, nel 1928 inizia il progetto statunitense del grande telescopio da 5 m e Horn comprende subito le difficoltà tecniche cui andrà incontro: il telescopio infatti vedrà la luce solo vent’anni più tardi. Tra le altre, la fusione del vetro per lo specchio primario, che dovrà essere fatta due volte; l’accurata levigazione della grande superficie parabolica a una frazione della lunghezza d’onda della radiazione visibile; la deformazione che subisce un vetro ottico di quelle dimensioni con le variazioni termiche che ne modificano il piano focale; la difficoltà di una delicata movimentazione delle parti meccaniche per il grande peso del complesso strumentale. E soprattutto: i costi. Progettare telescopi di grandi o anche solo medie dimensioni non è certo un’operazione pensabile per l’“Italietta” dell’epoca.

Ed ecco l’idea geniale e largamente anticipatrice: invece di costruire un grande specchio come superficie riflettente di un telescopio, perché non costruirne tanti piccoli – costano di meno ed è più semplice farli – metterli insieme come in un mosaico, posizionarli opportunamente e farli funzionare come se fosse uno specchio unico?

Nasce così, nel 1932, il progetto dello specchio a tasselli. Ottanta piccoli specchi trapezoidali di circa dieci per dieci centimetri, avente ognuno la stessa sezione di curvatura sferica, per un diametro complessivo di un metro (fig. 6 e fig. 7). Lo specchio così composto non può essere montato in una struttura mobile come i normali telescopi riflettori, dotati di motore per inseguire il moto della volta celeste, ma rimane fisso su un piano di marmo e osserva quella zona del cielo che nel corso dell’anno passa allo zenit. È quella che gli astronomi chiamano montatura zenitale fissa. Nel piano di marmo sono praticati tre fori per ogni specchio in cui passano delle viti su cui poggiano gli specchi e che servono per regolarli, in modo che le immagini formate da ognuno di essi siano tutte concentrate nello stesso piano focale, posto a dieci metri di distanza. Si forma così un’immagine unica, somma delle immagini di ogni specchio.

Horn ha ben chiaro che l’immagine formata da un mosaico di specchi non può essere identica a quella di un singolo specchio delle stesse dimensioni complessive. Infatti, in un sistema ottico quello che si chiama potere risolutivo – p.e. la capacità di distinguere due immagini vicine – migliora con l’aumentare del diametro dell’ottica, nel nostro caso lo specchio. In un mosaico di piccoli specchi, pur perfettamente allineati, il potere risolutivo è limitato dalle dimensioni di ogni singolo specchio ed è quindi inferiore a quello di un unico specchio equivalente. Ma qui gli viene in aiuto un altro aspetto: un fenomeno che da sempre disturba le osservazioni astronomiche, vale a dire la turbolenza atmosferica. Questa, con il suo movimento irregolare e con le sue veloci variazioni nell’alta e soprattutto nella bassissima atmosfera, non fa altro che allargare l’immagine, per esempio, di una stella, che non arriva più sull’obiettivo dello strumento come uno stretto fascio puntiforme, ma come un’immagine più o meno allargata a seconda della turbolenza. Gli astronomi chiamano questo fenomeno con il termine inglese “seeing” e sperano sempre di averlo di buona qualità. Per questo (e anche per altri motivi) ci si reca nelle montagne più alte alla ricerca di scarsa turbolenza atmosferica o, meglio ancora, nello spazio, del tutto al di fuori dall’atmosfera. Dunque, questo effetto di allargamento dell’immagine, e quindi di deterioramento del potere risolutivo teorico di un sistema ottico, fa sì che, tutto sommato, la perdita di risoluzione di cui dicevamo per un mosaico di specchi finisce per non essere poi così drammatica da un punto di vista pratico, come Horn dimostra. Oggi, grazie alle più moderne tecnologie, questo problema è risolto con la complessa tecnica del co-phasing, con la quale si possono controllare più gradi di libertà dei singoli tasselli (p.e. traslazione e rotazione), in modo che questi, insieme, riescano a comportarsi come se fossero uno specchio unico. Inutile dire che una tecnica di questo tipo era assolutamente non immaginabile ai tempi di Horn.

L’altro grande beneficio che deriva dal poter movimentare i singoli tasselli è nei confronti di alcune aberrazioni cui i sistemi ottici sono soggetti. Senza entrare in dettagli tecnici, ci basti dire che l’aberrazione sferica è completamente eliminata e quelle di coma e di astigmatismo sono parzialmente corrette. Inoltre, i piccoli tasselli risentono della dilatazione termica molto meno di un unico blocco vitreo.

Infine, ma non di secondaria importanza, rispetto a uno specchio monolitico di pari dimensioni, il vantaggio da un punto di vista tecnico ed economico è enorme.

Con le sue ampie conoscenze di ottica, sia strumentale che teorica, Horn affronta in alcune pubblicazioni i dettagli del suo progetto. “Ora mi preme mostrare – scrive – che la forma e le dimensioni delle immagini ottenute teoricamente con lo specchio a tasselli sono praticamente identiche a quelle generate da un paraboloide rotondo, quando il suo parametro sia uguale al raggio di curvatura dei tasselli sferici”, e prosegue con complesse formule e grafici di ottica teorica.

Nella sua definizione il progetto è quindi ben stabilito e, volendo usare l’attuale terminologia, possiamo dire che si tratta di un “multi-mirror telescope with active optics”, cioè un telescopio a specchi multipli con ottica attiva.

Horn ha anche dei contatti con altri scienziati. In particolare, con George W. Ritchey, astronomo e progettista di telescopi, in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti nel 1932 per la IV Assemblea generale dell’International Astronomical Union. Nello stesso viaggio svolge con esito positivo alcune prove insieme a Robert Aitken, direttore del Lick Observatory in California, utilizzando il telescopio da 90 cm, opportunamente oscurato con una maschera di cartone per simulare i tasselli. “La mia idea ha trovato molto plauso in America” scrive entusiasticamente al rappresentante Zeiss in Italia.

Resta ora da procedere con la realizzazione pratica e qui iniziano a nascere i problemi. La prima ditta cui Horn si rivolge e con la quale aveva già collaborato è quella del fiorentino Angiolo Ciabilli, ma i primi dieci tasselli sono di qualità pessima: le lunghezze focali dei singoli specchi differiscono addirittura di molti centimetri. Ci sono quindi dei contatti con l’ingegner Angelo Salmoiraghi, direttore della Filotecnica di Milano, che, dopo essersi inizialmente rifiutato, appronta dieci tasselli che sembrano di qualità appena accettabile.

Nel frattempo Horn pensa di brevettare la sua idea, inviando nel giugno del 1932 una domanda di privativa industriale al Ministero delle Corporazioni. Solo nel novembre dell’anno successivo arriva la risposta, in cui gli si chiede di eseguire diverse modifiche e di rifare i disegni secondo opportune istruzioni entro novanta giorni. Incredibilmente, conoscendo la sua precisione e puntualità, Horn risponde un giorno dopo la scadenza, ma non inviando le modifiche richieste, bensì ritirando la domanda: cosa inutile, visto che era già scaduta. Dai documenti d’archivio non siamo riusciti a comprendere i motivi di questa rinuncia e non ci resta che supporre che le difficoltà a procurarsi dei validi tasselli possano aver insinuato in lui qualche dubbio sulla fattibilità tecnica complessiva.

Ma dopo aver visitato a Jena la Zeiss che sta costruendo il telescopio da 60 cm per Loiano, Horn propone alla ditta tedesca di fare i tasselli. La Zeiss esegue alcune prove senza successo. Dopo un lungo scambio di lettere, però, riesce a convincere l’ingegner Walter A. Villiger – il direttore della sezione di ottica e quindi uno dei massimi esperti nel campo della strumentazione astronomica – a rifare nuovi test seguendo i suoi consigli. I test funzionano e la Zeiss fornisce così dieci tasselli di ottima qualità.

Con i primi dieci tasselli della Filotecnica aveva iniziato a montare un primo spicchio del mosaico su un piano di marmo (fig. 8), nella sala della torretta in cima all’osservatorio, sfruttando un’apertura al centro della volta (fig. 9). In questa è montata una crociera in ferro che regge una sorgente luminosa artificiale, un cannocchiale collimatore per allineare i singoli specchi e un portalastre fotografiche che deve essere mosso con la velocità apparente della volta celeste. Dapprima il movimento è manuale e difficoltoso, ma successivamente si utilizza un motore che sposti il portalastre con l’opportuna velocità. Finalmente, il 19 giugno 1935 si fanno le prime prove in cielo sulla qualità delle immagini dopo le complicate procedure di allineamento. Il tempo complessivo per mettere a fuoco tutti gli specchi è addirittura di tre-quattro ore.

Tra il 1936 e il ’37 il telescopio è ampliato a venti tasselli, con quelli ottenuti dalla Zeiss, alla quale Horn intende ordinare quelli mancanti per uno specchio da un diametro complessivo di un metro. La qualità delle immagini è molto buona e possono iniziare così le osservazioni astronomiche.

4 1938: un drammatico eufemismo, "la dispensa dal servizio"

Ma il lieto fine è purtroppo destinato ad essere procrastinato e di molto. Annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Mussolini e precedute dal tragicamente ben noto “Manifesto degli scienziati razzisti” del 14 luglio, entrano in vigore le leggi antiebraiche. Nel dicembre dello stesso anno, con un tragico eufemismo, Horn è “dispensato dal servizio”, rimosso dalla direzione dell’Osservatorio e dalla cattedra. Il progetto del telescopio a tasselli è bloccato, insieme a qualunque sua altra attività: decenni di lavori alla ricostruzione di un fecondo ambiente astronomico bolognese sono andati completamente in fumo. Le sue pubblicazioni presenti nella Biblioteca Universitaria di Bologna mostrano ancora oggi il timbro rosso “Lib. Sg.”, libro sgradito!

Oltre a “normali” cittadini, un gran numero di studiosi è sottoposto alle stesse discriminazioni. Tra questi, sei nell’ambiente astronomico, tra i quali i giovani Bruno Rossi, laureatosi a Bologna e che aveva seguito il corso di Astronomia di Horn, e Luigi Jacchia, promettente assistente di Horn: entrambi avranno poi una brillante carriera scientifica negli Stati Uniti. Il numero di astronomi perseguitati sembra piccolo rispetto a discipline veramente falcidiate, come la fisica, la chimica e la matematica, ma, dal momento che gli astronomi in Italia all’epoca erano circa una trentina, il numero percentualmente non è certo di piccolo rilievo, soprattutto pensando che alcuni di essi erano direttori e cattedratici nel pieno delle loro attività.

Dopo pochi mesi trascorsi a Bologna, nei quali Horn cerca disperatamente, ma invano, di poter procedere “anonimamente” nelle osservazioni con il telescopio e nella gestione di Coelum, si rifugia a Faenza dall’amico astronomo Giovanni Battista Lacchini. Nell’inverno 1943-44 si deve nascondere nelle campagne romagnole per non essere scoperto e infine ripara a Pesaro. La guerra finisce, l’astronomo può ritornare nella sua posizione accademica e rimettere mano alla ricostruzione dell’Osservatorio. Faticosamente. Basti pensare che l’edificio della foresteria e dell’officina della Stazione osservativa di Loiano era stato colpito da una bomba durante il passaggio del fronte e addirittura privato di suppellettili, porte e infissi e che la cupola del telescopio Zeiss era stata completamente saccheggiata, rubati i motori del telescopio e i materiali dell’officina e privata di elettricità per alcuni anni.

Ma, evidentemente, anche durante la clandestinità non aveva smesso di pensare a come migliorare il suo amato progetto di telescopio. E così i tasselli ora divengono più grandi – un esagono da venti centimetri – e si decide di levigare i vetri ottici grezzi nell’officina dell’Osservatorio; migliora anche la lunga procedura di allineamento. Dopo un’infruttuosa richiesta al CNR, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici finanzia un’operazione che oggi, all’interno di una torre settecentesca, sarebbe del tutto impensabile: forare quattro piani per alloggiare il nuovo telescopio che è destinato ad avere un diametro maggiore.

5 1952: finito! Ora si può osservare

Nel 1952 il progetto, nato vent’anni prima, è finalmente concluso: 61 specchi esagonali compongono una superficie riflettente di 1,8 m complessivi (fig. 10). Sotto al piano di marmo che sorregge lo specchio, al primo piano dell’antica torre, in un piccolo ambiente appositamente ricavato, sono accessibili ben 183 viti di regolazione (fig. 11), ma con la nuova procedura ideata da Horn “l’ottica attiva” può essere allineata in poco meno di un’ora, rispetto alle tre-quattro ore del prototipo.

Con un tempo di esposizione massimo di 6 m 45 s su lastre fotografiche Ferrania Cappelli Blu, si riesce a raggiungere una magnitudine limite di 18-19 (fig. 12). La scala su un campo complessivo di 1,3° è di 20 secondi d’arco per millimetro e si misurano stelle separate di appena 1⁄4 mm, cioè 5 secondi d’arco. Risultati eccellenti, possiamo dire, considerando sia l’inquinamento luminoso e atmosferico del cielo di Bologna degli anni Cinquanta, sia il fatto che la realizzazione dello strumento è avvenuta con materiale non di costo elevato, con mano d’opera locale non specializzata e senza gli strumenti disponibili presso le industrie di ottica. Il tutto solo con l’enorme competenza ottica e strumentale di Horn.

Ora si può iniziare a fare delle osservazioni. Nell’arco di dieci anni sono esposte circa 17000 lastre fotografiche del cielo zenitale di Bologna, oggi conservate nel Museo della Specola. Con i suoi collaboratori e soprattutto con Lacchini scopre undici nuove stelle variabili, identificate con l’acronimo VB (Variabile Bologna). Horn non si limita alle osservazioni e prosegue con le sue ricerche di ottica. In particolare, studia in dettaglio gli effetti della diffrazione sull’immagine cumulativa formata dagli 81 specchi e propone, fra i primi, l’uso di due tasselli lontani tra loro – molto lontani – a formare un interferometro.

Il limite principale dell’innovativo progetto di Horn è dovuto alla sua immobilità orizzontale, un limite, a quei tempi, non superabile. Così nasce l’idea di costruire una decina di telescopi a tasselli, posizionati in tutt’Italia, da nord a sud, e distanziati tra di loro di circa un grado di latitudine, per poter osservare una regione di cielo molto vasta. Stante il sempre presente problema economico, l’idea è quella di sfruttare torri o strutture artificiali o naturali già esistenti. Per esempio, il pozzo di San Patrizio a Orvieto o la Torre dei Francesi a Brescia. Addirittura, nel 1955 progetta “la più grande superficie riflettente del mondo”: un enorme telescopio composto da 217 tasselli esagonali e dal diametro complessivo di 5,1 m all’interno delle Grotte di Castellana in Puglia. Nonostante l’appoggio e l’approvazione di buona parte delle istituzioni locali pugliesi, il progetto però non viene mai avviato.

I dodici registri in pelle rossa, conservati nell’Archivio del Dipartimento di Astronomia, che raccolgono i diari d’osservazione dei due telescopi a tasselli – il prototipo da 1 m del 1935 e il grande da 1,8 m del 1952 – si chiudono con l’ultima osservazione di Guido Horn d’Arturo. È la notte del 31 ottobre 1957. Il giorno successivo, 1° novembre, va in pensione. È il suo ultimo giorno, quindi, da dipendente dello Stato italiano. Quello Stato che aveva scelto come suo da giovane laureato austro-ungarico, per il quale, con gran rischio, si era offerto volontario in guerra e il quale lo aveva cacciato e umiliato discriminandolo. In totale più di dieci anni “persi” per quella che avrebbe potuto essere un’ancor più brillante carriera scientifica. Ma Guido Horn d’Arturo è un astronomo, un professore universitario, un direttore di osservatorio, che sente il dovere di compiere il suo lavoro fino alla fine.

E dopo? Il telescopio? Le osservazioni?

Nulla. In quel giorno l’avventura della geniale e ampiamente precorritrice idea italiana di un telescopio multi-mirror with active optics finisce (fig. 13 e fig. 14).

6 Ma l'idea era vincente

Alcuni anni prima, nel 1951 e poi ancora nel 1954, Albert Graham Ingalls, uno dei noti curatori di Scientific American, esperto in strumentazione astronomica, non solo aveva descritto dettagliatamente sulla rivista la realizzazione del progetto di Horn, ma anche come questa fosse una brillante soluzione dei problemi presentati dai grandi telescopi monolitici. Tanto brillante che però si dovettero aspettare quasi trent’anni prima che la tecnologia consentisse la realizzazione di un moderno telescopio a più specchi. Nel 1979 vede la luce sul Mount Hopkins, in Arizona, il Multiple-Mirror Telescope (MMT), formato da sei specchi circolari da 1,8 m di diametro ciascuno. È proprio l’idea di Horn: aumentare le dimensioni degli specchi primari mediante l’unione di superfici più piccole e l’Università dell’Arizona chiede alla direzione della rivista Coelum una foto di Horn e del suo specchio a tasselli.

Ma il ricordo dell’astronomo italiano scompare. O quasi. L’unico che fa un collegamento tra il progetto di Guido Horn d’Arturo e il nuovo MMT è Luigi Jacchia. Allievo e collaboratore di Horn a Bologna negli anni Trenta, era stato costretto a emigrare negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali; dapprima all’Harvard College Observatory di Cambridge (MA), poi, dopo aver collaborato durante la guerra con il Directorate of Science and Technology della CIA, allo Smithsonian Astrophysical Observatory, dove era diventato uno dei maggiori esperti di lanci di razzi nell’atmosfera. In un articolo uscito nel 1978, subito prima dell’inaugurazione del MMT, sulla diffusissima rivista Sky and Telescope dal titolo significativo “Forefathers of the MMT”, Jacchia sottolinea come Horn sia arrivato a concepire la nuova metodologia di costruire grandi specchi “frammentati” sin dagli anni Trenta e come l’abbia definitivamente realizzata e utilizzata astronomicamente già negli anni Cinquanta. L’articolo di Jacchia termina con parole esplicite: “All things considered, the MMT on the eve of completion in Arizona must be considered a descendant, along a cadet line, of Bologna telescope”.

Eppure, Horn rimane ancora dimenticato, anche se ovviamente l’idea procede. Nel 1993-97 sorgono sul Mauna Kea alle Hawaii i telescopi gemelli Keck I e Keck II, con ognuno uno specchio primario da 10 m di diametro composto da 36 esagoni. Nel 1997 è realizzato l’Hobby Eberly Telescope del McDonald Observatory, con diametro da 10 m costituito da 91 esagoni e nel 2005 in Sudafrica il Southern African Large Telescope, con 91 tasselli esagonali per un totale di 9,2 m. E ancora, il Gran Telescopio Canarias a La Palma, del 2007, 36 tasselli per 10,4 m, e nel 2008 il Large Sky Area Multi-Object Fibre Spectroscopic Telescope dell’Accademia cinese delle scienze, con un sistema ottico per osservazioni spettroscopiche abbastanza complesso, ma anch’esso composto da tasselli esagonali. È oggi in fase di progettazione da una collaborazione statunitense-canadese il Thirty Meter Telescope, con un diametro di 30 metri e con 492 tasselli esagonali, mentre è in avanzata realizzazione in Cile il più grande telescopio al mondo, l’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO, con un’importante partecipazione italiana, previsto per il 2027, formato da 798 esagoni con un’apertura totale di 39,3 m.

Insomma, tutti multi-mirror, cioè telescopi a tasselli. Certo, la tecnologia è cambiata, e non di poco. Adesso il mosaico di specchi può essere montato in una struttura mobile invece di rimanere fisso orizzontalmente. L’allineamento e il frequente aggiustamento dei tasselli – ottica attiva – e anche l’adattamento alle distorsioni prodotte sulle immagini dalla turbolenza atmosferica – ottica adattiva – non necessitano più di quasi un’ora di tempo, ma avvengono in micro- o nano-secondi (fig. 15).

7 Damnatio memoriae

Ma la domanda è: perché sono pochissimi i riferimenti in letteratura a Guido Horn d’Arturo, il primo non solo a ideare, ma anche a costruire e soprattutto a utilizzare per osservazioni astronomiche uno strumento di questo tipo? Nel provare a rispondere a questa domanda, ho già avuto occasione di ricordare quanto riporto qui quasi integralmente.

Fa parte delle discussioni tra gli storici e tra i filosofi della scienza l’analisi del processo “mentale” che porta a una scoperta scientifica o tecnica e, di conseguenza, “il se, il chi e il quando” si può attribuire la primogenitura. La storia della scienza è ricca di attribuzioni assegnate, dibattute e poi rimesse in discussione. Sta di fatto che si può affermare, in generale e molto sinteticamente, che una nuova teoria scientifica o un nuovo sviluppo tecnologico nascano in un contesto di convinzioni, conoscenze, esperienze e valutazioni che non sono meramente scientifiche o solamente “personali”, bensì, in senso lato, del tutto “culturali”, per cui può non essere casuale che due o più persone giungano nello stesso tempo a formulare le stesse ipotesi o a sviluppare gli stessi strumenti. Come dire che, quando l’ambiente è “caldo” e l’“humus” fertile, idee simili possono sbocciare contemporaneamente o quasi.

Tra i tanti esempi, si può ricordare l’interminabile vicenda, anche giudiziaria, relativa all’invenzione del telefono, tra Antonio Meucci e Alexander Graham Bell, conclusasi (forse) a favore dell’italiano solo nel 2002, addirittura con una risoluzione del Congresso degli Stati Uniti d’America. Per non parlare delle polemiche che nascono, con una certa frequenza, all’atto dell’assegnazione dei premi Nobel in diverse discipline. Per rimanere nel campo astronomico, si può far menzione della disputa sull’invenzione del cannocchiale, tutt’oggi irrisolta, tra Hans Lippershey, Jacob Metius e Zacharias Janssen (e perché non anche Giovambattista Della Porta?) o di quelle tra Galileo e Simon Mayr, per la priorità della scoperta dei satelliti di Giove, e tra lo stesso Galileo e Christoph Scheiner, riguardo all’osservazione delle macchie solari, o della lunga polemica tra Angelo Secchi e Lorenzo Respighi sulla priorità dell’utilizzo del prisma obiettivo. Un esempio molto recente è la decisione presa dall’International Astronomical Union di cambiare il nome dell’universalmente nota “legge di Hubble” in quello di “legge di Hubble-Lemaître”, riconoscendo così anche all’abate belga la priorità nella scoperta della relazione tra lo spostamento verso il rosso degli spettri delle galassie e la loro distanza; il tutto avvenuto con un ampio dibattito e a seguito di un voto espresso dai suoi membri nell’ottobre 2018.

Ebbene, nel nostro caso, direi che la primogenitura non si possa porre in discussione. Certo, uno dei limiti di Horn fu quello di scrivere tutti i suoi numerosi articoli in italiano e su riviste italiane (solo uno è in inglese e un paio in tedesco). Inoltre, come scrive sempre Jacchia nel già citato articolo del 1978, “In Italy Horn-d’Arturo was considered an eccentric, and mention of his ‘specchio a tasselli’ almost invariably caused shrugs and smiles”. Aveva ragione Horn a insistere con le sue futuristiche idee o il provinciale ambiente astronomico italiano degli anni Cinquanta-Sessanta a fare “spallucce e sorrisetti”?

Il suo lavoro era comunque noto, se è vero che in un volume a più mani del 1990, “The visible universe”, compare una foto di Horn d’Arturo chino sullo specchio da 1,8 m, la cui didascalia, molto esplicitamente, recita: “A little-known forerunner of modern segmented telescope mirrors was the mosaic-like reflector conceived in 1932 by Italian astronomer Guido Horn d’Arturo. Screws attached to the underside of each tile allowed the astronomer to tilt the mirrors eliminating spherical and other types of optical aberrations”. Chiaro, no?

Ancora più chiaro è un corposo articolo in un volume del 1981 dedicato ai telescopi degli anni Ottanta. Qui Jacques M. Beckers presenta una storia accurata degli “early multiple objective telescopes”. Ebbene, di tutti i progetti di specchi segmentati discussi, l’unico che compare come effettivamente costruito e che abbia prodotto risultati scientifici è quello di Horn. È curioso anche sottolineare il fatto che, oltre a questo riconoscimento, si ricorda come il suo lavoro pioneristico fosse stato “interrotto” a causa della seconda guerra mondiale, senza dire che le “interruzioni” erano state provocate dalle leggi razziali, non dalla guerra!

Di fatto oggi viene riconosciuto come “inventore dei telescopi segmentati” Jerry Nelson, il costruttore dei telescopi Keck alle Hawaii, per i quali nel 2010 ha ottenuto il prestigioso Kavli Prize in Astrophysics dell’Accademia di scienze e lettere di Norvegia, con una motivazione che ricorda a chiare lettere quanto aveva sinteticamente scritto Horn nel 1932 per presentare la sua idea: “invece di un grande specchio Nelson ha proposto di farne molti piccoli e sottili e questo non pone limiti alle dimensioni di una superficie riflettente”.

“Tantum satis” si potrebbe dire.

Ma manca ancora un piccolo tassello nella nostra storia.

Il 25 dicembre 2021, dalla Guiana francese è stato lanciato il razzo Ariane 5 con a bordo il James Webb Space Telescope per osservazioni infrarosse. Giunto in orbita solare, il telescopio ha potuto distendere la sua struttura e allineare le ottiche e il 16 marzo ha inviato la prima immagine di eccezionale qualità. Ebbene, il JWST ha uno specchio principale da 6,5 m composto da 18 segmenti riflettenti esagonali di berillio, ricoperti da una sottilissima lamina d’oro (fig. 16).

Mi piace allora ricordare che nel 1966, nel suo ultimo articolo su Coelum, pochi mesi prima della morte, Horn aveva scritto che “l’impossibilità di ottenere immagini meglio definite, finché si rimane dentro l’atmosfera della Terra spinge l’astronomo a portare i mezzi ottici fuori dell’atmosfera. Essendo uno degli ostacoli il gran peso dello specchio, si finisce per ricorrere allo specchio a tasselli relativamente poco pesante”. Sono passati cinquantacinque anni da quell’articolo al lancio del James Webb (fig. 17).

8 Il lieto fine: il telescopio ASTRI-Horn

C’è comunque un lieto fine. Grazie alla Società Astronomica Italiana e all’Istituto Nazionale di Astrofisica, il 18 novembre 2018 è stato intitolato a Guido Horn d’Arturo il telescopio ASTRI (Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana) alle pendici dell’Etna, costituito da 18 tasselli esagonali da 85 cm per un totale di 4,3 m (fig. 18). Si tratta di uno dei prototipi del progetto internazionale Cherenkov Telescope Observatory composto da 120 telescopi da 4, 12 e 23 m, per un totale di diecimila tasselli, da realizzare in Cile e alle Canarie, cui partecipano oltre 1300 scienziati di una trentina di nazioni, per lo studio di radiazioni di altissima energia generate dagli eventi più violenti del nostro universo.

La targa del telescopio ASTRI-Horn (fig. 19) recita: “Questo telescopio è dedicato all’astronomo Guido Horn d’Arturo (Trieste 1879 - Bologna 1967) il padre degli specchi a tasselli nella ricerca astrofisica”.