“Con bilancia esquisita e giusta”
A quattrocento anni dalla pubblicazione del Saggiatore di Galilei
Michele Camerota
1 Il libro
Si è condotta a fine la ’mpressione del suo libro con la maggior accuratezza che la fretta delle stampe ha sostenuto. Se ne manda uno a V. S. per la presente posta, che sarà poi seguito da una balla di sessanta volumi. Hora egli è salito in tal pregio appo N. S. [il Pontefice], che se ’l fa legger a mensa. In tanto me ne pregio anch’io, per vedermi a parte de’ suoi honori, e mi rallegro con V. S. in veder il suo nome in possesso dell’immortalità, e l’età nostra, mercè la sua penna, alzarsi a tal segno di gloria, che non fu da i primi nostri conosciuta, né sarà da i posteri pareggiata.
Con queste entusiastiche parole, Virginio Cesarini – accademico linceo, Maestro di Camera del Papa, e amico di Galilei – dava la notizia del completamento della stampa de Il Saggiatore (fig. 1).
La soddisfazione di Cesarini era duplice: non solo il libro aveva per i suoi contenuti un significato epocale, tanto da sollevare il secolo (“l’età nostra”) ad una “gloria” mai prima raggiunta, ma il nuovo pontefice – il fiorentino Maffeo Barberini, asceso al soglio di Pietro nell’agosto 1623 con il nome di Urbano VIII (fig. 2) – se lo faceva leggere a mensa e, come confermava un altro ‘galileiano’ di stanza a Roma, Tommaso Rinuccini, lo aveva molto apprezzato.
Il gradimento papale coronava un’operazione accortamente studiata dall’Accademia dei Lincei, che aveva patrocinato la stampa e firmava la dedica del volume a Urbano VIII. Negli auspici del sodalizio linceo, l’opera del “Fiorentino scopritore non di nuove terre, ma di non più vedute parti del cielo” si inseriva in una temperie segnata da un “universal giubilo delle buone lettere” e doveva contribuire a “mantener favoriti i nostri studi co’ cortesi raggi e vigoroso calore della sua [del papa] benignissima protezzione”.
Il Saggiatore era, dunque, un testo scientifico che aveva anche un significato politico: non solo serviva a rafforzare l’influenza dell’Accademia lincea in curia, ma era finalizzato altresì a promuovere un vasto e profondo rinnovamento culturale, fortemente auspicato da Galilei:
Io raggiro nella mente – scriveva lo scienziato a Federico Cesi nell’ottobre 1623 – cose di qualche momento per la republica litteraria, le quali se non si effettuano in questa mirabil congiuntura, non occorre, almeno per quello che si aspetta per la parte mia, sperar d’incontrarne mai più una simile.
Per Galilei il rinnovamento doveva essere incentrato sulla riconsiderazione della nuova immagine del mondo proposta da Copernico, un tema su cui l’editto della Congregazione dell’Indice del marzo 1616 aveva forzatamente fatto calare il silenzio e che, ora, il nuovo pontificato barberiniano poteva rimettere in discussione.
Quanto la “mirabil congiuntura” fosse effimera ed illusoria, Galilei avrà modo di comprenderlo una decina di anni dopo, in occasione della pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi e della conseguente, amarissima vicenda processuale. Ora, tuttavia, in quel 1623 rallegrato dall’elezione di un pontefice che gli aveva persino dedicato una lirica esaltatoria, l’ottimismo dominava; l’uscita del Saggiatore e il favore dimostratogli da Urbano VIII contribuivano a rafforzarlo ulteriormente.
Oltre che un libro scientifico e politico, Il Saggiatore è però, soprattutto, un testo polemico. La sua finalità è, infatti, quella di replicare alla Libra astronomica ac philosophica pubblicata a Perugia, nel 1619 (fig. 3), dal professore di matematica gesuita Orazio Grassi, con lo pseudonimo di Lotario Sarsi.
Nelle sue 236 pagine, Il Saggiatore riporta alla lettera ed esamina con attenzione tutto il testo della Libra, al modo di un commentario critico articolato in 53 paragrafi. Una simile struttura rende alcune sezioni dell’opera – soprattutto laddove la discussione indulge ad una dettagliata, cavillosa confutazione del discorso del Grassi – non troppo attraenti. In altre parti, tuttavia, la lettura risulta, sia in forza della mirabile qualità letteraria dell’espressione che della singolare novità e valore delle considerazioni sviluppatevi, straordinariamente piacevole. In particolare, l’argomentazione galileiana si rivela avvincente nell’ambito di quegli spunti destinati a stigmatizzare l’inerzia speculativa, lo sterile dogmatismo, il vuoto verbalismo caratteristici della elaborazione naturalistica del tempo, cui viene contrapposta l’alternativa di un approccio nutrito di rigore matematico e di empirica concretezza.
L’idea di sottoporre l’opera di Orazio Grassi ad un meticoloso scrutinio è enunciata fin nel frontespizio. Di contro alla grossolanità dell’avversario – espressa dal richiamo a un dispositivo impreciso come la stadera (la Libra del Grassi) –, Galilei afferma di volerne accuratamente soppesare le parole “con bilancia esquisita e giusta”, una “bilancia da saggiatori” appunto, cioè con uno strumento adoperato per accertare la purezza dell’oro.
È bene chiarire che il termine saggiatore designa l’artefice dell’operazione, e non – come talvolta si è ritenuto – lo strumento utilizzato per la pesatura. È lo stesso Galilei a chiarire il punto in una postilla ad una successiva opera di Grassi, la Ratio ponderum et simbellae (1626):
Voi [Grassi] non intendete questo mestiero, mentre che voi credete che i saggiatori si servino delle bilancine per pesar l’oro o l’argento, essendo che l’uffizio è di ritrovare se ’l metallo che vien proposto per oro puro o per argento, è tale, o pure tiene di rame o altra materia men perfetta, o è alchimia etc.: e così il Saggiatore scuopre i vostri errori mascherati con molte molte fraudi e ’nganni, e non gli pesa altramente, lasciando che tal giudizio si faccia da chi si sia e con qualsivoglia stadera ben grossa.
2 Le comete
All’origine della diatriba tra Galilei e Grassi si pone l’apparizione, tra l’agosto del 1618 e il gennaio 1619, di tre grandi comete, che catturarono l’attenzione generale e innescarono vivaci dibattiti tra gli astronomi.
Il prodromo della controversia fu segnato dalla pubblicazione, nel gennaio 1619, della De tribus cometis anni MDCXVIII disputatio astronomica (fig. 4). Benché uscito in forma anonima, il volume era stato redatto dal professore di matematica del Collegio Romano (la più prestigiosa istituzione culturale della Compagnia di Gesù), Orazio Grassi, il quale vi esponeva un punto di vista che non era solo personale, ma rispecchiava i convincimenti degli altri astronomi del Collegio e rappresentava, dunque, una sorta di presa di posizione ufficiale dell’Ordine.
Nella Disputatio, Grassi rifiutava risolutamente l’opinione aristotelica di una natura ignea e di una dislocazione sublunare delle comete, negando che esse siano (come creduto da Aristotele) degli incendi di vapori terrestri ascesi in prossimità del concavo della Luna. A suo giudizio, le luminose apparizioni di quell’inverno 1618 costituivano, invece, dei veri e propri corpi celesti, situati ben oltre la sfera lunare (fig. 5).
Per giustificare la propria tesi, Grassi presentava tre argomenti.
In primo luogo, riprendeva il procedimento di misurazione della parallasse già utilizzato con successo da Tycho Brahe per la cometa del 1577. Collazionava, pertanto, i dati registrati in diverse località – alle osservazioni svolte nel Collegio Romano, aggiungeva quelle dei collegi gesuiti di Parma e Anversa, e di Johannes Remus Quietanus a Innsbruck – (fig. 6) rilevando che la terza delle comete dell’inverno 1618 (la più luminosa e duratura) mostrava una parallasse pressoché nulla. Ora, poiché “quanto più l’oggetto osservato è distante dalla Terra, tanto più la parallasse diminuisce”, è evidente che ci si trovava di fronte non ad un fenomeno del mondo sublunare, ma ad un genuino evento celeste.
In secondo luogo, a conferma di tale conclusione, il matematico gesuita annoverava i riscontri attinenti al moto cometario. A differenza dei fenomeni meteorologici, che non possiedono un movimento regolare ed ordinato, la cometa – quando il suo moto venisse rappresentato in proiezione – sembrava spostarsi con velocità uniforme lungo una linea retta (fig. 7). A partire da questo dato, Grassi inferiva che il reale tragitto cometario doveva corrispondere al moto lungo un cerchio massimo (la proiezione di un cerchio massimo su un piano equivale appunto ad una retta), cioè ad un percorso analogo a quello dei pianeti.
Infine, la collocazione ultralunare della cometa sarebbe stata attestata dalla circostanza che l’astro, visto attraverso il telescopio, non presentava alcuna tangibile amplificazione di immagine, proprio come – secondo Grassi – accade nel caso delle remotissime stelle fisse, le quali non ricevono dall’osservazione telescopica un ingrandimento sensibile. La Disputatio Astronomica terminava rilevando che la posizione cometaria andava stimata come intermedia tra il Sole e la Luna.
Il testo del Grassi fu attentamente letto da Galilei, che, in collaborazione con l’amico Mario Guiducci, procedette ad elaborarne una accurata confutazione, pubblicata nel giugno 1619 con il titolo Discorso delle comete (fig. 8). Per quanto il frontespizio del volumetto indicasse quale autore il solo Guiducci, Galilei contribuì in modo essenziale alla sua stesura, tanto che l’opera può essere definita una compiuta espressione della teoria cometaria galileiana.
Irritato per le aspre (e, a suo avviso, immotivate) critiche rivoltegli da Galilei e Guiducci, Grassi reagì con vigore, pubblicando nell’ottobre del 1619, con lo pseudonimo di Lotario Sarsi, la Libra astronomica ac philosophica. Dovette però attendere quattro anni per poter leggere la corrosiva replica di Galilei, affidata alle sferzanti pagine del Saggiatore.
Dal punto di vista dei contenuti astronomici, l’opera ripropone quanto già esposto nel Discorso delle comete, ma lo fa attraverso un confronto diretto con il testo della Libra del Grassi, minuziosamente esaminato e confutato.
Alle tesi del matematico gesuita, Galilei contrappone una diversa spiegazione dei fenomeni cometari. In primo luogo, egli considera criticamente il ricorso alla parallasse, poiché, specifica, “la ragione della paralasse non vale nelle pure apparenze, ma val bene negli oggetti reali”. Prima di poter dichiarare legittimi i riscontri parallattici relativi alle comete, occorrerebbe, dunque, chiarire che si riferiscano a “oggetti reali” e non ad “apparenze, reflessioni di lumi, immagini e simulacri vaganti”.
Proprio tale natura avevano invece, per Galilei, le comete in quanto costituite da fumosità e vapori ascendenti dalla superficie terrestre e vaganti per gli spazi celesti lungo una direttrice rettilinea. Il loro sfolgorio sarebbe, in tal senso, il prodotto del riflesso della luce solare su grandi masse vaporose dipartitesi dalla Terra.
Questa spiegazione può sembrare analoga alla vecchia concezione di Aristotele (il quale interpretava anch’egli le comete come esalazioni terrestri). Occorre tuttavia notare che la teoria galileiana concepisce il fenomeno in termini puramente ‘ottici’ (come riflessione di luce solare), rinunciando del tutto all’ipotesi peripatetica della combustione dei materiali esalati. Inoltre, a differenza della tesi aristotelica, Galilei situava le apparizioni cometarie ben oltre il limite del concavo lunare, sostenendo che esse sormontavano “il cono dell’ombra terrestre”. Ora, poiché l’estensione del cono d’ombra della Terra era valutata al tempo in circa 254 raggi terrestri, mentre la distanza massima della Luna era stimata in appena 64 raggi terrestri, è evidente che le comete si collocavano molto al di là della sfera lunare.
La strana idea di Grassi secondo cui il telescopio non ingrandirebbe il corpo delle comete (come pure delle stelle fisse) a causa della loro estrema lontananza è oggetto di una severa, mordace reprimenda da parte di Galilei, volta a confermare che lo strumento “aggrandisce tutti gli oggetti visibili secondo la medesima proporzione, sien pur essi costituiti in qualunque lontananza si sia”.
Con identica risolutezza viene oppugnata la teoria del Grassi di una traiettoria cometaria circolare, svolgentesi lungo un cerchio massimo graficamente rappresentato come una retta. Per quanto sia vero – nota Galilei – che “all’occhio posto nel centro della sfera i cerchi massimi e i moti fatti in essi appariscano linee rette”, non è, però, “necessario il converso”, ossia che ogni movimento che ci appaia retto avvenga lungo un cerchio massimo: la cometa potrebbe, quindi, davvero muoversi lungo una retta. Proprio questa è la tesi sostenuta da Galilei, che attribuiva alla cometa un moto rettilineo uniforme lungo una perpendicolare alla superficie terrestre (fig. 9).
La teoria galileiana si conformava piuttosto bene ai dati attinenti alla variazione di elongazione della cometa rispetto al Sole, e alle sue variazioni di velocità. Non riusciva però a dar conto del riscontro osservativo di una variazione di latitudine, rappresentata dall’apparente spostamento della cometa verso nord, oltre lo zenit dell’osservatore. Per spiegare tale spostamento, Galilei e Guiducci ritenevano necessario “aggiugner qualch’altra cagione di tale apparente deviazione”, senza tuttavia specificare quale fosse il moto (“la cagione”) in grado di giustificare la declinazione verso nord del percorso cometario. Il padre Grassi non aveva dubbi in proposito; nella sua Libra astronomica (la risposta al Discorso delle comete) egli notava che:
prima di Galileo, già Keplero, in una breve appendice sul moto delle comete, si sforza di spiegare quel moto in termini rettilinei; [...] e al fine di rendere ragione di tutti i fenomeni osservabili nelle comete, egli giudicò che quel movimento dovesse essere sostenuto dal moto circolare della Terra, la qual cosa non è in alcun modo consentita a noi cattolici.
Effettivamente, nella Appendix de motu cometarum della Astronomiae pars optica (1604) (fig. 10), Kepler aveva difeso l’idea che le comete si muovessero lungo traiettorie rettilinee, asserendo, inoltre, che il mescolarsi del moto della Terra, con quello rettilineo era in grado di dar conto in modo soddisfacente delle apparenze osservative. Nei suoi De cometis libelli tres del 1619, lo stesso Kepler individuava in tale peculiarità un importante elemento di conferma della visione eliocentrica del mondo:
[...] quante sono le comete in cielo, – scriveva – tante sono le prove (a prescindere da quelle che si traggono dai moti dei pianeti) che la Terra si muove di moto annuo intorno al Sole. Addio Tolomeo: sotto la guida di Copernico ritorno ad Aristarco.
Secondo Grassi, Galilei assumeva il medesimo punto di vista. In effetti, la tesi di una traiettoria rettilinea comportava, anche se in modo non dichiarato (per ovvie ragioni di prudenza), l’attribuzione dell’apparente deviazione verso settentrione del percorso cometario al mutamento di posizione dell’osservatore, ossia al moto annuo della Terra.
La replica galileiana, affidata alle solitamente briose e pungenti pagine del Saggiatore, non concedeva nulla all’ironia, risultando invece improntata alla massima accortezza, col negare risolutamente ogni intenzione copernicana:
né il Signor Mario [Guiducci] né io abbiamo mai scritto, la cagion di tal deviazione depender da qualch’altro moto, né di Terra né di cieli né d’altro corpo. Il Sarsi di suo capriccio l’ha introdotto; egli stesso si risponda, né pretenda d’obligar altri a sostener quello che non ha detto, né scritto, né forse pensato.
La reazione di Galilei è del tutto comprensibile. I rischi legati a un’aperta professione di fede eliocentrica non potevano esser presi alla leggera. Tra i cattolici, la dottrina del moto della Terra si poteva solo enunciare ipoteticamente, ma non sostenere in termini realistici. Ecco perché Galilei mascherava le proprie convinzioni dietro formulazioni cautamente allusive, senza scoprire appieno il risvolto – risolutamente copernicano – conseguente l’attribuzione della traiettoria rettilinea alle comete.
La disputa cometaria del 1618 presentava, dunque, notevoli implicazioni di carattere cosmologico. In tale prospettiva, benché la teoria galileiana sia evidentemente erronea, essa va inquadrava nel tentativo di un rilancio del sistema copernicano perseguito dallo scienziato.
La riproposizione della dottrina eliocentrica costituiva, a sua volta, il cuore di un programma di rinnovamento dei quadri concettuali della cultura del tempo di cui Il Saggiatore presentava, con grande incisività, i tratti essenziali.
3 “Minimi” e qualità
Il problema della natura e del moto delle comete rappresenta l’occasio scribendi e il nucleo tematico del Saggiatore. Tuttavia il libro è infarcito di digressioni e approfondimenti dedicati a problemi fisici ed epistemologici di grande rilevanza. Proprio queste parti sono le più interessanti e più meritatamente famose dell’opera. È il caso del celebre passo in cui Galileo, invitando a sottrarsi alla tutela delle ‘autorità’ e a confrontarsi direttamente con il reale, rileva il carattere matematico del ‘libro della natura’:
Parmi [...] di scorgere nel Sarsi [Grassi] ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
Accanto all’esigenza di una escussione diretta della testimonianza della natura, il brano rimarca l’imprescindibilità della conoscenza della matematica ai fini dell’indagine naturale. Il mondo fisico ha ua struttura geometrico-matematica che, appunto, non si può comprendere “se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto”. Ciò significa – per dirla con un acuto interprete del pensiero galileiano, Alexandre Koyré – che “le leggi di natura sono delle leggi matematiche. Il reale incarna il matematico”; pertanto: “la natura non risponde che alle domande poste in linguaggio matematico, giacché la natura è il regno della misura e dell’ordine”.
Rompendo drasticamente con la tradizione aristotelica che concepiva la ‘qualità’ come nozione fondamentale per la comprensione dei fenomeni fisici, Galilei sosteneva l’imprescindibilità della considerazione della ‘quantità’ e del conseguente ricorso alla misurazione. Quest’ultima costituisce la più sicura risorsa epistemologica per vincere l’alterità del fenomeno, in quanto è in grado di riportarlo a ciò di cui la nostra mente ha una certezza assoluta: il numero. A giudizio di Galileo, infatti, la cognizione delle scienze matematiche è, quanto a ‘perfezione’ ed evidenza, la medesima per Dio e per l’uomo. Come notava nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, benché l’intelletto divino conosca tutte le verità matematiche, nondimeno “l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura”. In sostanza, gli enti e le procedure matematiche vengono intesi dalla nostra mente con la stessa chiarezza e cogenza con cui sono colti dalla natura (da Dio), poiché la ragione “arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore”.
La conoscenza matematica del mondo fisico è dunque garantita dalla sua corrispondenza con la struttura dalla realtà naturale e, inoltre, risulta dotata di una intrinseca indubitabilità e certezza.
Il Saggiatore esprime il senso del programma epistemologico galileiano in modo mirabile. Lo fa, in particolare, a partire da una distinzione, quella tra le qualità ‘oggettive’ e ‘soggettive’ dei corpi, che – ripresa da molti autori della prima età moderna (da René Descartes fino a John Locke) – ha segnato uno spartiacque nella teoria della conoscenza:
io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, – scrive Galilei – subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse.
Galilei riprendeva una tesi di ascendenza democritea, separando le qualità come i colori, i suoni e gli odori – la cui realtà è puramente fittizia o ‘nominale’ (“puri nomi”), in quanto non appartengono alla effettiva natura del corpo percepito, ma nascono dall’interazione tra i nostri organi sensoriali e l’oggetto esperito – dalle determinazioni reali ed universalmente conosciute, riportabili al dominio della quantità (dimensione, forma, posizione, moto, ecc.). Queste ultime sono appunto ‘oggettive’, nel duplice significato di costituire una caratteristica reale dell’oggetto e di esser date a tutti i soggetti conoscenti nel medesimo modo.
La ‘mossa’ galileiana risponde all’esigenza di sviluppare una rigorosa fisica matematica, cioè un’indagine naturalistica fondata sulla analisi quantitativa dei fenomeni. Le qualità ‘oggettive’ consentono, infatti, di esprimere l’interrelazione tra i fenomeni in forma misurabile, riconducendo, al contempo, la conoscenza del mondo fisico ad una prospettiva di carattere ‘meccanico’, priva di ogni commistione soggettivistica e di ogni residuo animistico e finalistico.
La distinzione tra i due tipi di qualità risulta strettamente connessa alla teoria della materia enunciata ne Il Saggiatore, una teoria di sapore atomistico che spiegava le percezioni sensibili come l’esito dell’attività di “una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità, li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità”.
Al di là delle affezioni dei nostri organi di senso, le quali, in se stesse, “non ànno veramente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi”, stanno, dunque, le proprietà ‘primarie’ (moto, figura, numero, dimensioni ecc.), realtà effettive della materia in quanto, appunto, proprie di quei ‘minimi’ che ne costituiscono la struttura (oltre ad essere i veri, reali agenti delle percezioni).
Il mondo, così come configurato in queste pagine del Saggiatore, è un mondo puramente meccanico, in cui i fenomeni (e la nostra stessa conoscenza sensibile) si producono a partire dall’urto dei “corpicelli minimi” che formano la materia. Galilei sviluppava così una concezione rigorosamente meccanica della realtà naturale, inaugurando una prospettiva che influenzò profondamente la filosofia naturale del tempo.
4 Problemi eucaristici
Come i contemporanei non mancarono di constatare tempestivamente, la teoria della percezione sensibile galileiana implicava conseguenze pericolose dal punto di vista teologico. Così, lo stesso Orazio Grassi, nella sua replica al Saggiatore – pubblicata a Parigi nel 1626 con il titolo di Ratio ponderum Librae et Simbellae – osservava:
È comunemente affermato che nell’ostia le specie sensibili (calore, sapore e così via) permangono; Galileo dice invece che il calore e il sapore, fuori da colui che li avverte (e pertanto anche nell’ostia), sono dei puri nomi, ossia essi sono un nulla. Da ciò che Galileo dice, si dovrà dunque inferire che il calore e il sapore non sussistono nell’ostia. L’animo prova orrore solo a pensarlo.
La dottrina cattolica dell’eucaristia era stata minutamente precisata, soprattutto in funzione antiprotestante, nella tredicesima sessione (ottobre 1551) del Concilio di Trento. Nel chiarire il senso delle parole pronunciate da Gesù nell’ultima cena, i teologi conciliari avevano stabilito che la presenza di Cristo nell’ostia è assolutamente reale e che – di contro all’opinione luterana della ‘consustanziazione’ (o ‘companazione’) – non si dà alcuna coesistenza del suo corpo e sangue con le ‘sostanze’ del pane e del vino, ma queste ultime si convertono, o, meglio, si ‘transustanziano’ nel corpo e nel sangue del Salvatore. Al contempo, il canone tridentino affermava decisamente la persistenza delle sembianze esterne del pane e del vino. Mentre, dunque, la sostanza cambiava, le ‘specie’ (cioè il colore, sapore, odore, ecc., dell’ostia) permanevano senza alcuna mutazione. Il miracolo eucaristico risiedeva appunto in questa trasformazione della sostanza cui si accompagnava la conservazione delle apparenze sensibili del pane e del vino.
Ora, come rilevato da Grassi, Galilei aveva ridotto tali sembianze esterne a “puri nomi”, cioè a determinazioni ontologicamente fantasmatiche, esistenti solo come modificazioni della sensibilità del soggetto percipiente e non come effettive qualità degli oggetti percepiti. La sua concezione sembrava, quindi, in contraddizione con la realtà delle specie eucaristiche sancita dal Concilio tridentino.
L’argomento è stato al centro di un controverso libro del 1983, “Galilei eretico”, in cui lo storico Pietro Redondi proponeva una nuova interpretazione delle ragioni della condanna di Galilei nel 1633. Il processo intentato per aver indebitamente difeso la concezione copernicana, avrebbe, in realtà, mirato ad evitare che lo scienziato venisse coinvolto in un procedimento assai più grave, basato sull’accusa di eresia eucaristica. Benché la tesi di Redondi risulti non condivisibile in quanto non adeguatamente sostenuta da riscontri documentari, il suo libro ha però il merito di aver sollevato il velo su un aspetto del tutto ignoto della ricezione del Saggiatore galileiano.
Redondi ha scoperto nell’Archivio della Sacra Congregazione per la dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio) una richiesta di parere teologico sulla concezione della materia esposta nel Saggiatore. L’estensore dell’esposto (un documento che Redondi denomina G3 in ragione dell’occorrere di tale sigla sul margine alto del foglio) (fig. 11) vi ravvisava, infatti, una minaccia nei confronti delle stipulazioni tridentine sul sacramento dell’eucaristia:
se questa filosofia d’accidenti si ammette per vera, mi pare che grandemente difficulti l’esistenza de gl’accidenti del pane e del vino che nel Santissimo Sacramento stanno separati dalla propria sustanza, poiché ritrovandosi ivi i termini e gl’oggetti del tatto, della vista, del gusto etc., secondo questa dottrina bisognerà dire che anche vi siano le minime particelle con le quali prima la sustanza del pane moveva i nostri sensi, le quali se fossero sustanziali, come diceva Anassagora, et anche pare che consenta quest’autore [...], ne segue che nel Sacramento vi siano parti sustanziali di pane o vino, che è errore condannato dal Sacro Concilio Tridentino, sess. 13 can. 2.
In tempi più recenti, nella stessa filza dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, è stato rinvenuto un articolato giudizio (vergato in latino) sulla distinzione sviluppata nel Saggiatore tra le diverse qualità (‘oggettive’ e ‘soggettive’) dei corpi. L’anonimo autore (molto probabilmente il gesuita ungherese Melchior Inchofer) individua sei errori nelle affermazioni galileiane, e ne sottolinea l’inconciliabilità con l’insegnamento della Chiesa a proposito dell’eucaristia, affermando che, una volta assunta la concezione di Galilei, risulta impossibile sostenere la miracolosa permanenza degli “accidenti” (sembianze) del pane e del vino in concomitanza con la trasformazione della loro sostanza nel corpo e sangue di Cristo.
Questo parere è, con tutta evidenza, strettamente legato alla richiesta di giudizio avanzata nel documento denominato G3. Non solo la localizzazione delle carte (la loro prossimità all’interno della medesima filza d’archivio), ma anche la assoluta congruenza dei loro contenuti, porta a ritenere che essi costituiscano due atti concatenati della medesima vicenda.
Le accuse appena considerate non ebbero niente a che vedere col successivo processo celebrato nel 1633; nondimeno, il loro affiorare rende testimonianza delle preoccupazioni che le dottrine galileiane suscitarono nell’ambito della cultura dominante.
In particolare, i due documenti in questione attestano oltre ogni dubbio il significato dirompente delle tesi esposte nel Saggiatore, un libro in cui – al di là dello specifico argomento del contendere – Galilei (fig. 12) seppe esprimere con efficacia e straordinaria raffinatezza narrativa la profonda, radicale innovatività del proprio pensiero.