Formazione planetaria nell’era di ALMA

Giuseppe Lodato


© ESO / M. Kornmesser

1 I pianeti extra-solari

1.1 Osservazioni di pianeti extra-solari
Fino al 1995 l’unico esempio di sistema planetario conosciuto era il nostro stesso Sistema Solare. Domande quali se il nostro sistema fosse l’unico, o se la sua architettura (con i pianeti rocciosi vicini al Sole ed i giganti gassosi nelle zone più esterne) fosse rara o comune, restavano senza risposta. Allo stesso tempo le teorie di formazione planetaria dovevano confrontarsi con l’unico esempio disponibile. Le cose sono radicalmente cambiate a partire dalla scoperta, nel 1995, di 51 Peg b, il primo pianeta extra-solare scoperto attorno ad una stella simile al Sole. Da allora, grazie allo sviluppo di spettroscopia ad alta risoluzione da Terra e a missioni spaziali dedicate allo studio dei transiti planetari (come Kepler), il numero di sistemi planetari extra-solari noti è cresciuto a dismisura, superando il migliaio. Queste scoperte hanno portato ad alcune conferme (come, per esempio, il fatto che la maggior parte delle stelle di piccola massa, come il Sole, posseggano dei sistemi planetari) e anche diverse sorprese. Tra le sorprese più notevoli, per esempio, c’è la scoperta di una ricca popolazione di pianeti, chiamati Hot Jupiter, dotati di massa confrontabile con quella di Giove, ma che si trovano ad una distanza dalla loro stella molto inferiore rispetto a quella di Mercurio dal Sole. A tali piccole distanze dalla stella, la massa di gas e polveri interstellari disponibile per la formazione planetaria è molto più piccola della massa di Giove, il che indica che la formazione in situ di tali pianeti non è possibile, e che quindi essi debbano avere migrato verso la posizione attuale dopo essersi formati a distanze molto maggiori dalla loro stella. La migrazione planetaria, quindi, predetta teoricamente verso la fine degli anni '70, adesso ha delle forti evidenze di tipo osservativo. Un’altra scoperta inattesa riguarda la distribuzione delle eccentricità delle orbite planetarie: mentre nel Sistema Solare le orbite hanno quasi tutte eccentricità molto bassa e sono quindi essenzialmente circolari, i pianeti extra-solari mostrano al contrario una ampia distribuzione in eccentricità. Infine, ci sono evidenze che la frequenza di pianeti giganti attorno a stelle con alta metallicità sia maggiore. Queste varie osservazioni devono essere spiegate in modo coerente dai modelli di formazione e delle prime fasi dell’evoluzione planetaria.

La fig. 1 mostra alcune di queste proprietà per i pianeti extrasolari confermati ad oggi (i dati sono stati presi dalla Extrasolar Planets Encyclopedia, www.exoplanets.eu). L’asse delle x indica il semiasse maggiore dell’orbita in unità astronomiche (au), mentre l’asse delle y indica la massa del pianeta in masse di Giove, la grandezza dei punti e la scala di colori indicano invece l’eccentricità orbitale. Il plot mostra prima di tutto la grande varietà in massa per i pianeti extrasolari, che vanno dalle decine di masse solari giù fino alla massa della Terra, al limite della sensibilità degli strumenti attuali. Il grafico mostra inoltre l’abbondanza di Hot Jupiters nelle parti interne dei sistemi extrasolari osservati, e l’ampia distribuzione in eccentricità, con un trend che pare favorire basse eccentricità nelle zone più interne (probabilmente per effetti di interazione mareale con la stella) ed una distribuzione più ampia per pianeti lontani dalla propria stella. L’evoluzione dei parametri orbitali planetari (semiasse maggiore ed eccentricità) è, come vedremo più avanti, strettamente legata alla interazione tra i pianeti appena nati e il disco di gas e polvere all’interno del quale si sono formati.

Un’altra informazione assai interessante dal punto di vista della dinamica si può ottenere dalla possibilità di misurazione dell’angolo relativo tra il piano equatoriale della stella ed il piano dell’orbita planetaria. Ciò è possibile tramite lo studio dell’effetto Rossiter-McLaughlin, una distorsione delle curve di velocità radiale (intesa come la velocità apparente della stella lungo la linea di vista, misurabile tramite effetto Doppler sulle righe dell’atmosfera stellare) in presenza di un transito planetario. Tale misura è ormai disponibile per un numero abbondante di sistemi e mostra come in molti casi (al contrario del Sistema Solare) le orbite planetarie possano essere fortemente disallineate rispetto all’asse di rotazione della stella ospite. Se l’intero sistema planetario si pensa essersi formato a partire da materiale il cui momento angolare ha una direzione coerente nel tempo e nello spazio, ci si aspetterebbe che i due assi coincidano. Le evidenze dall’effetto Rossiter-McLaughlin indicano quindi che durante la formazione planetaria, qualche processo, o esterno o interno, porti ad una modifica del momento angolare planetario.

1.2 Modelli di formazione planetaria
Attualmente sono due i modelli prevalenti riguardo la formazione planetaria: il primo, maggiormente condiviso, va sotto il nome di modello di core accretion, il secondo sotto il nome di modello di instabilità gravitazionale. In entrambi i modelli, si suppone che i pianeti si formino all’interno dei dischi di gas e polvere che circondano la stella nascente.

Nel modello di core accretion, il ruolo fondamentale è giocato dalla componente solida, che si agglomera progressivamente in seguito a collisioni costruttive. Una volta che il nucleo (core) solido raggiunge una massa sufficiente, dell’ordine di alcune volte la massa della Terra, il core non è più in grado di supportare una tenue atmosfera e interviene una instabilità che lo porta ad accrescere una gran quantità di gas, fino a diventare un pianeta gigante, come Giove. Nel modello alternativo dell’instabilità gravitazionale, invece, i pianeti giganti si formano direttamente a partire dalla componente gassosa nel disco. Se il disco è sufficientemente massiccio, può andare incontro ad instabilità gravitazionali, che producono naturalmente una struttura a spirale (analoga a quella osservata nelle galassie a disco). Se il gas si raffredda sufficientemente velocemente, su un tempo scala confrontabile con quello dinamico, l’instabilità porta alla frammentazione dei bracci a spirale in oggetti autogravitanti con massa dell’ordine di diverse volte la massa di Giove, che in questo modello vengono identificati con i pianeti nascenti. Ciascuno dei due modelli ha i suoi meriti e le sue difficoltà.

Il modello di core accretion è in grado di spiegare sia la formazione di pianeti rocciosi che di giganti gassosi, ma è un processo lento, che impiega diversi milioni di anni per essere portato a conclusione, un tempo confrontabile con il tempo di vita dei dischi stessi in cui si dovrebbero formare i pianeti. Il modello di instabilità gravitazionale, d’altro canto, riesce solo a spiegare la formazione di pianeti giganti, e le masse tipiche previste in questo modello sono parecchio alte, come detto sono significativamente maggiori della massa di Giove. Inoltre, le condizioni ideali per avere instabilità gravitazionale (disco massiccio e raffredamento rapido) si verificano solo nelle zone piû esterne del disco, almeno a 50–100 au dalla stella, e bisogna quindi invocare meccanismi di migrazione estremamente efficaci per portare i pianeti alle distanze a cui vengono osservati.

2 L’ambiente in cui nascono i pianeti: i dischi protostellari

2.1 Formazione stellare e dischi protostellari
I progressi nella scoperta dei pianeti extra-solari discussi nel paragrafo precedente ci danno una fotografia del risultato finale del processo di formazione planetaria. Ci cominciano, finalmente, a mostrare la popolazione di pianeti nella nostra galassia. Non ci mostrano, però, il processo di formazione planetaria in atto. I modelli di formazione planetaria devono, certo, rendere conto della popolazione osservata, e devono quindi essere in grado di riprodurre la diversa architettura dei vari sistemi e le proprietà fisiche ed orbitali osservate. Dal punto di vista osservativo è però essenziale osservare l’ambiente in cui la formazione planetaria avviene. Tale possibilità, come vedremo a breve, ci è finalmente offerta con un livello di risoluzione angolare (cioè con la capacità di osservare i dettagli su scale piccole dal punto di vista astronomico, di qualche au) inconcepibile fino a pochi anni fa, grazie al telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter Array), un complesso di sessantasei radiotelescopi operanti a lunghezze d’onda del millimetrico, da poco completato nel deserto di Atacama in Cile (fig. 2). Prima di parlare di ALMA e di come sta rivoluzionando la nostra conoscenza dell’ambiente di formazione planetaria, sarà però opportuno introdurre questo ambiente: i dischi protostellari. Le stelle si formano a partire dal collasso sotto l’effetto della propria forza di gravità di dense nubi di gas interstellare freddo, chiamate nubi molecolari. I nuclei di tali nubi (molecular cloud cores), dai quali si pensa si formi una singola stella, sono strutture dalle dimensione di circa 0.1 pc (cioé circa 2 × 104 au), e sono dotate di un modesto momento angolare, generalmente poco rilevante dal punto di vista dinamico. Però, man mano che il collasso procede, il momento angolare diventa sempre più importante ed il gas e la polvere che compongono la nube si trovano presto ad affrontare la cosiddetta "barriera centrifuga" in cui l’attrazione gravitazionale della protostella, che induce il collasso, diventa confrontabile con la forza centrifuga. Questo avviene tipicamente su una scala spaziale di circa 103 au. A queste distanze, la nube in collasso si appiattisce fino a formare un disco, in cui in prima approssimazione la forza di gravità viene bilanciata dalla forza centrifuga, ed il collasso viene quindi arrestato. La durata di questa fase di evoluzione è di circa 105 anni. Per continuare il collasso fino a raggiungere la stella in formazione, il gas e la polvere devono quindi perdere il proprio momento angolare specifico e muoversi così su orbite più strette. Ciò avviene su tempi scala molto più lunghi (circa 106–107 anni), sotto l’azione di meccanismi dissipativi all’interno del disco protostellare, spesso descritti in termini di una viscosità efficace.

I meccanismi fisici responsabili del trasporto di momento angolare nei dischi protostellari non sono ancora del tutto chiariti, e vengono spesso associati a fenomeni collettivi legati allo sviluppo di instabilità magneto-idrodinamiche o gravitazionali, che possono generare fenomeni turbolenti, aumentando i coefficienti di trasporto.

Tali fenomeni di trasporto anomalo vengono spesso riassunti in un semplice parametro adimensionale, α, definito come il rapporto tra la magnitudine del tensore degli stress e la pressione. Instabilità gravitazionali e magneto-idrodinamiche generano valori di α ≈ 10–3–10–2.

2.2 Gas e polvere nei dischi protostellari
I dischi protostellari sono formati da due componenti principali: il gas e la polvere. Il gas è la componente dominante dal punto di vista della massa. Se, come ci si aspetta, la composizione dei dischi protostellari riflette quella del mezzo interstellare, il rapporto in massa tra polvere e gas è di 1:100. D’altro canto, la polvere domina i processi di emissione e l’opacità del disco. Questo implica che la termodinamica del disco sia quasi completamente determinata dalla composizione e distribuzione dei grani di polvere e che dal punto di vista osservativo noi abbiamo accesso soprattutto alla componente di polvere. Osservazioni nel vicino infrarosso permettono di studiare gli strati più superficiali del disco, in cui la polvere diffonde la luminosità stellare che incide sul disco. Ma è a lunghezze d’onda millimetriche (quelle osservate da ALMA) che ottiniamo informazioni più dettagliate sulla distribuzione della polvere e sulla sua morfologia. Nel millimetrico, osserviamo l’emissione termica della polvere, e poichè a queste lunghezze d’onda il disco è otticamente sottile (cioè trasparente), abbiamo accesso anche alle proprietà fisiche della polvere negli strati più profondi, vicino al piano equatoriale. Ovviamente, la polvere gioca un ruolo chiave anche nei processi di formazione planetaria: i nuclei rocciosi dei pianeti, inclusi i pianeti giganti, si suppone si siano formati dall’agglomerazione successiva proprio della componente solida presente nel disco. Lo studio della polvere nei dischi protostellari offre così anche una finestra per osservare le prime fasi della formazione planetaria.

Il gas, che come detto dovrebbe essere la componente dominante in massa, risulta molto più difficile da osservare. La molecola di idrogeno (che dovrebbe essere la componente dominante del gas) emette molto debolmente ed è quindi essenzialmente impossibile da rilevare. Per conoscere qualcosa della distribuzione di gas dobbiamo quindi affidarci ad altri traccianti, come le molecole di CO ed i suoi isotopi. Anche in questo caso, il telescopio ALMA risulta essere estremamente utile, in quanto diverse transizioni rotazionali cadono proprio nella banda millimetrica.

Per lunghi anni, lo studio dei dischi protostellari si è basato su osservazioni, spesso a bassa risoluzione, dell’emissione termica della polvere, facendo l’ipotesi che gas e polvere siano perfettamente accoppiati e che l’una tracci l’altro. Inoltre, la struttura del disco veniva descritta in termini molto semplificati, basandosi su modelli a simmetria assiale, ed in cui le quantità fisiche, come densità e temperatura, vengono ipotizzate variare con la distanza dalla stella seguendo semplici leggi di potenza. Come vedremo, queste ipotesi si stanno rivelando non consistenti con le recenti osservazioni ad alta risoluzione. Dal punto di vista teorico, quindi, è ormai chiaro che è necessario sviluppare modelli in cui la dinamica della polvere e del gas vengono trattate simultaneamente ed in maniera accoppiata, preferibilmente rilassando le ipotesi di simmetria assiale, e possibilmente includendo anche l’effetto della presenza di pianeti giovani in formazione nel disco, il cui campo gravitazionale può perturbare anche significativamente la distribuzione del gas e della polvere che vi sta attorno. Tutto ciò è reso possibile anche grazie agli sviluppi computazionali, e al perfezionarsi di tecniche numeriche (come ad esempio la cosiddetta Smoothed Particle Hydrodynamics, o SPH) per la soluzione delle equazioni dell’idrodinamica, che regolano l’evoluzione del disco.

In breve, le recenti osservazioni ad alta risoluzione richiedono, per essere correttamente interpretate, lo sviluppo di modelli avanzati dei dischi protostellari, basati su simulazioni numeriche in tre dimensioni della dinamica accoppiata di gas e polvere, anche in presenza di pianeti in orbita attorno alla protostella.

2.3 Dinamica accoppiata di gas e polvere
Gas e polvere, nei dischi protostellari, sono accoppiati tramite frizione, analogamente a quel che accade ad un corpo solido che si muova in un fluido terrestre. L’intensità della forza di frizione viene parametrizzata in base al cosiddetto “numero di Stokes”, che misura il rapporto tra il tempo scala di frenamento dovuto alla frizione, tfric , ed il tempo scala dinamico del sistema, che in questo caso è legato al periodo orbitale attorno alla protostella, e viene definito come tdyn = Ω–1, dove Ω è la frequenza orbitale. Il numero di Stokes è quindi definito come St = Ωtfric. Il numero di Stokes è funzione delle dimensione dei grani di polvere e della densità e temperatura del gas, e, per solidi che vanno dal micron ai metri, risulta essere direttamente proporzionale alla dimensione tipica dei grani di polvere. Possiamo distinguere quindi polvere molto accoppiata con il gas, per cui St<<1, e polvere disaccoppiata, per cui St >> 1. Per le condizioni tipiche dei dischi protostellari la transizione tra St < 1 e St > 1 avviene per grani di polvere che vanno dal millimetrico fino a diversi centimetri. È importante notare che, essendo St funzione della densità e temperatura del gas, e che queste variano con la distanza dalla stella, grani di una certa dimensione possono essere fortemente o debolmente accoppiati al gas al variare della loro distanza dalla stella. In particolare, un certo grano di polvere di dimensioni tali da risultare fortemente accoppiato al gas nelle zone più interne e più dense del disco, può essere debolmente accoppiato nelle zone esterne, in cui la densità del gas è minore.

La dinamica della polvere è determinata da una serie di processi fondamentali. Il primo è il cosiddetto settling in direzione verticale. Mentre il gas nel disco viene supportato dalla pressione, e quindi acquista una forma di disco sottile, ma con estensione finita, proporzionale alla velocità del suono, la polvere tende a depositarsi sul piano equatoriale del disco, con una estensione verticale molto minore.

Si può dimostrare che la combinazione di forze di frizione e di turbolenza nella componente gassosa portano ad una estensione verticale della polvere data da

$H_{d} = \sqrt{\frac{\alpha}{\alpha +St}} H_{g}$,

dove Hd è lo spessore della polvere, Hg è lo spessore del gas, e α è il parametro di viscosità turbolenta. Si vede quindi che polvere molto accoppiata (St << α) ha uno spessore confrontabile con il gas, come ci si aspetta, mentre polvere disaccoppiata (St >> α) ha invece uno spessore molto inferiore.

Il secondo processo chiave nell’evoluzione della polvere è dato dal cosiddetto drift radiale. Il gas orbita attorno alla stella ad una velocità azimutale leggermente inferiore di quella data dalla terza legge di Keplero, poichè viene supportato contro la gravità anche dalle forze di pressione. Al contrario, la polvere non sente l’effetto della pressione e si muove in prima approssimazione a velocità kepleriana, sentendo quindi un “vento di prua”, dato dal gas che si muove più lento. La frizione quindi agisce in direzione azimutale, esercitando un momento torcente sulla polvere e facendogli perdere momento angolare, causando così una veloce migrazione radiale verso la stella. La velocità radiale indotta sul gas è data da

$\nu_{R,d} = - \frac{\Delta \nu}{St +1/St} + \frac{\nu_{R,g}}{1+St^{2}}$

dove vR,d è la velocità radiale della polvere, vR,g < 0 è la velocità radiale del gas dovuta ai processi viscosi, mentre Δv è la differenza tra la velocità azimutale del gas e quella Kepleriana, che sta all’origine del “vento di prua”. Vediamo quindi che il drift radiale tende a zero per St >>1, a causa del debole accoppiamento gas-polvere, e tende alla lenta migrazione radiale del gas (su un tempo scala di milioni di anni) per St << 1 (forte accoppiamento gas-polvere).

La massima migrazione radiale avviene per St ~ 1, per le quali il tempo scala di migrazione può essere velocissimo, dell’ordine del migliaio di anni. Questo, da un lato, pone forti problemi ai modelli più accreditati di formazione planetaria, che prevedono una lenta crescita della componente solida dalle dimensioni del micron del mezzo interstellare fino alle dimensioni ben più grandi (del km) dei cosiddetti pianetesimi. La rapida migrazione di corpi solidi con St ~ 1, che corrisponde a dimensioni che vanno dal centimetro al metro, pone quindi il problema della ritenzione del materiale solido nel disco. Dall’altro, come vedremo, ci sono adesso evidenze che i dischi di polvere siano molto più concentrati di quelli di gas, un effetto facilmente interpretabile in base al drift radiale. Si può inoltre dimostrare che, se la struttura del gas non è omogenea e, per esempio, sono presenti massimi locali della pressione, il drift radiale porta in modo estremamente efficiente la polvere con St ~ 1 a concentrarsi nei massimi di pressione, in quella che viene definita una particle trap. Tali “trappole”, giocano un ruolo fondamentale per interpretare le strutture osservate e nel processo di formazione planetaria.

Il terzo processo chiave nella dinamica della polvere è dato dalla coagulazione, che porta grani di polvere piccoli a crescere in dimensione. La polvere interstellare è fondamentalmente composta da silicati. Come detto, è la polvere a dominare l’opacità del disco. Lo studio dell’emissione termica, ed in particolare la forma dello spettro nel millimetrico, là dove l’emissione è otticamente sottile, e di una specifica riga dei silicati (vista in emissione o in assorbimento) a 10 μm, ci danno preziose informazioni sulla struttura della polvere e sulle dimensioni dei grani. Tali studi portano a concludere che in molti dischi protostellari la polvere cresca fino a dimensioni ben superiori al micron tipico del mezzo interstellare, fino almeno al centimentro. La presenza di grani di dimensione ancora più grande non è invece verificabile osservativamente, poichè l’opacità di grani grossi si riduce drasticamente. Modelli teorici di agglomerazione dei solidi nei dischi indicano che la crescita fino a dimensioni del centimetro è relativamente facile per coagulazione successiva in seguito ad urti. La crescita ulteriore invece è molto incerta, soprattutto poichè collisioni tra “rocce” di grandi dimensioni alle velocità tipiche dell’interno del disco possono essere distruttive piuttosto che costruttive. In alcuni modelli, si pensa che la crescita al di là del metro avvenga in seguito ad instabilità nella componente solida del disco, probabilmente mediata o favorita dal gas, grazie per l’appunto alla produzione di “trappole”, corrispondenti a massimi locali di densità e pressione.

3 Sottostrutture nei dischi come impronta della formazione planetaria

La dinamica descritta nel paragrafo precedente può adesso venire studiata nel dettaglio tramite alle osservazioni della morfologia (grazie all’emissione termica della polvere) e della cinematica (grazie all’osservazioni delle righe del gas, come ad esempio il CO) associate alle strutture all’interno dei dischi protostellari. Descriverò adesso alcuni oggetti specifici, per i quali le immagini ALMA hanno rivelato particolari inaspettati e hanno gettato nuova luce sulla dinamica dei dischi protostellari. Partendo da questi casi osservati, è possibile farsi una idea di come ALMA stia letteralmente rivoluzionando la nostra conoscenza di tali oggetti.

3.1 TW Hya
TW Hya è una delle protostelle più vicine alla Terra, e come tale è una delle più studiate. Dista circa 50 pc, ha una massa di circa 0.8 M⊙, e una età di circa 10 milioni di anni. La fig. 3 mostra la Distribuzione Spettrale di Energia (Spectral Energy Distribution, SED) dell’emissione luminosa di TW Hya. L’emissione nell’ottico e nel vicino infrarosso (a lunghezze d’onda del micron) è un corpo nero a T ~ 4000 K, corrispondente alla fotosfera della protostella. L’emissione a lunghezze d’onda maggiori (da ~ 10 μm a 1 mm) proviene dalla polvere nel disco protostellare. Un aspetto interessante della SED è l’inflessione attorno a 10 μm, che indica l’assenza di materiale (o per meglio dire, di polvere) a distanze minori di circa 4 au dalla stella. Questo è un primo indizio della presenza di cosiddetti “gap” nella struttura del disco, che si pensa siano causati dall’interazione mareale con dei pianeti in formazione.

All’inizio del millennio le migliori immagini di disco di TW Hya si potevano ottenere da Terra nel millimetrico, grazie al Very Large Array, VLA e dallo spazio nel vicino infrarosso grazie allo Hubble Space Telescope, HST, come mostrato in fig. 4. Le immagini mostrano una struttura molto regolare, di un disco visto praticamente di faccia, e che si estende fino a circa 100 au di distanza dalla stella. I dettagli della struttura radiale non sono però risolvibili in queste immagini. Queste erano le migliori immagini del disco di TW Hya fino all’arrivo di ALMA. TW Hya è stata quindi osservata anche recentemente con ALMA, e l’immagine risultante è mostrata in fig. 5. La ricchezza di dettagli dell’immagine ALMA è evidente nel contrasto con le immagini precedenti.

La struttura del disco si rivela molto più complessa, e l’emissione mostra una serie concentrica di anelli, con divisioni a 22, 37 e 43 au. Inoltre, il “gap” centrale, deducibile dalla SED, risulta avere una estensione di circa 1 au. L’origine di tali anelli verrà descritta in maggiore dettaglio nel paragrafo successivo, parlando della analoga struttura osservata in HL Tau.

3.2 HL Tau
HL Tau è una protostella molto giovane, con una età di meno di 1 milione di anni. È stata una delle prime protostelle con disco ad essere osservate da ALMA, ed il primo esempio in cui le spettacolari capacità di risoluzione di ALMA sono apparse in modo evidente. L’immagine ALMA di HL Tau è mostrata in fig. 6. Anche in questo caso, l’immagine mostra una sequenza di anelli concentrici. L’aspetto forse più interessante che deriva dal confronto tra i dischi di HL Tau e di TW Hya è l’estrema somiglianza delle strutture presenti nei due casi. Come detto sopra, il tempo scala tipico per l’evoluzione viscosa dei dischi protostellari è di circa 1–10 milioni di anni. Questo significa che mentre HL Tau è un disco relativamente giovane, TW Hya dovrebbe al contrario essere molto evoluto, a dispetto della apparente somiglianza nella struttura presente nei due casi.

L’origine degli anelli e delle divisioni è stato da subito il quesito centrale che si è posto in seguito all’osservazione di HL Tau. La prima e più ovvia spiegazione è che si tratti di una versione “in grande” e meno evoluta degli anelli di Saturno. Nel caso di Saturno le divisioni negli anelli sono dovuti all’interazione mareale tra le lune di Saturno e i ghiacci e la polvere che compongono il disco. Nel caso di HL Tau, quindi, le divisioni dovrebbero essere causate da giovani pianeti in formazione ed immersi nel disco protostellare.

C’è però una differenza cruciale tra Saturno ed i suoi anelli ed il disco protostellare che circonda HL Tau: mentre nel caso di Saturno il disco è composto da materiale freddo, ed in massima parte solido, nel caso di HL Tau il disco, come detto, è formato da polvere ma anche da gas. L’interazione mareale di un pianeta con il gas, oltre alla formazione di divisioni, porta naturalmente allo sviluppo di onde di densità a spirale.

In fig. 7 mostro i risultati di una simulazione numerica dell’interazione disco-pianeta, da cui si nota chiaramente che il pianeta produce sì una divisione nel disco, ma anche una prominente struttura a spirale. Ci si chiese quindi come mai tali spirali non siano osservate in HL Tau.

La spiegazione sta proprio nella diversa dinamica di gas e polvere nel disco ed è stata fornita in un recente articolo. L’immagine ALMA mostra l’emissione di polvere nel millimetrico, e riflette quindi la struttura dei grani di polvere approssimativamente delle stesse dimensioni.

Se la polvere millimetrica si trovasse ad avere St > 1, non sarbebe accoppiata fortemente al gas e non dovrebbe quindi necessariamente riprodurre la struttura di densità del gas. La fig. 8 mostra un’altra simulazione numerica, ottenuta con la tecnica detta Smoothed Particle Hydrodynamics, della dinamica di gas e polvere accoppiati attorno ad una protostella dalle caratteristiche di HL Tau. Nel disco sono stati immersi tre pianeti di massa uguale a 0.2, 0.27 e 0.55 masse di Giove, che si trovano a 13.2 au, 32.3 au e 68.8 au di distanza dalla stella, rispettivamente. Le simulazioni mostrano la struttura della polvere con dimensioni diverse: 1μm, 10 μm, 100 μm, 1 mm, 1 cm, 10 cm (dalla figura in alto a sinistra a quella in basso a destra). Si vede bene da queste simulazioni che la polvere di dimensioni minori, fortemente accoppiata al gas, segue la struttura del gas e forma delle spirali, mentre quando si arriva alle dimensioni millimetriche la componente solida e priva di pressione si disaccoppia dal gas e tende a formare anelli assisimmetrici. Una volta ottenuta la struttura di densità e temperatura del gas e della polvere è possibile calcolare l’emissività a lunghezze d’onda millimetriche e produrre immagini sintetiche del disco simulato, come visto da ALMA. Il risultato è mostrato in fig. 9 e come si può vedere riproduce da vicino l’immagine osservata.

Dal punto di vista dinamico, la formazione di anelli e di divisioni all’interno del disco ha importanti conseguenze. Infatti, al bordo di una divisione nel gas si viene naturalmente a creare un massimo locale di pressione, che, come detto, agisce in maniera efficace da particle trap, rallentando la migrazione della polvere e favorendo la formazione ulteriore di pianeti. Inoltre, l’apertura della divisione nel gas è dovuta al fatto che il pianeta cede momento angolare al gas, spingendolo lontano dalla propria orbita. Il pianeta perde quindi momento angolare e su un tempo scala di qualche milione di anni migra verso le zone più interne del disco. Tale meccanismo è il meccanismo principale responsabile della migrazione planetaria e quindi della formazione degli Hot Jupiters descritti sopra.

3.3 Spirali, anelli e ferri di cavallo
Le sorpese che arrivano dalle osservazioni ALMA dei dischi protostellari non si limitano alle strutture con anelli concentrici osservate in HL Tau e TW Hya, ma mostrano una entusiasmante varietà.

In molti casi, ad esempio, la morfologia del disco di polvere come risulta dalle immagini nel millimetrico presenta delle marcate asimmetrie azimutali nella forma di mezzelune e ferri di cavallo. Alcuni esempi di queste strutture osservate sono mostrate in fig. 10. Un altro esempio spettacolare di tali strutture è rappresentato dal caso di HD142527, mostrato in fig. 11. L’origine di queste strutture viene spesso identificata con lo formazione di vortici in seguito allo sviluppo di Rossby Wave Instability ai margini della divisione provocata da un pianeta giovane in un disco a bassissima viscosità. Tali vortici sono particolarmente interessanti perchè sono delle efficienti particle traps per la polvere. Una spiegazione alternativa invece chiama in causa una instabilità eccentrica causata al bordo interno di un disco circumbinario, nel caso in cui il rapporto di massa tra i due elementi della binaria sia sufficientemente vicino all’unità.

Ovviamente, non mancano immagini di strutture a spirale. Un esempio spettacolare è mostrato dalla recentissima osservazione del disco di Elias 2-27, mostrato in fig. 12. In questo caso, i bracci a spirale sono molto probabilmente dovuti allo sviluppo di instabilità gravitazionali nel disco, in modo analogo a quel che succede nei dischi delle galassie a spirale. Tali instabilità, come accennato prima, possono giocare un ruolo fondamentale sia nel determinare il trasporto di momento angolare nel disco, sia per la possibile formazione diretta di pianeti giganti in seguito alla frammentazione del disco nelle zone ad alta densità corrispondenti alla spirale. Simili strutture a spirale sono anche osservate in altri oggetti più evoluti di Elias 2-27 in luce scatterata nel vicino infrarosso tramite imaging ad alta risoluzione.

4 Conclusione

ALMA sta letteralmente rivoluzionando la nostra comprensione dei fenomeni che avvengono all’interno dei dischi protostellari e che quindi portano alla formazione dei pianeti. In questo breve articolo mi sono soffermato soprattutto sugli aspetti morfologici, ma analoghi sviluppi si hanno anche dallo studio della cinematica del gas, grazie ad osservazioni delle righe degli isotopi del CO, e dallo studio della complessa chimica che avviene all’interno dei dischi.

Gli esempi che ho illustrato, però, mostrano già la ricca dinamica e la varietà di fenomeni che sono in gioco all’interno del disco.

Per molti versi ci troviamo adesso in una fase analoga a quella che c’è stata per lo studio delle galassie a partire dagli anni ’60, che ha portato ad un fecondo sviluppo di modelli di dinamica stellare. Senza dubbio gli anni a venire mostreranno un simile sviluppo anche nel campo della dinamica dei dischi protostellari e porteranno ad una nuova visione dei processi responsabili per la formazione delle stelle e dei pianeti che vi orbitano attorno.