Finestre smart: risparmio energetico e comfort visivo
Alessandro Cannavale, Pierluigi Cossari, Giuseppe Gigli
1 Smart Windows Elettrocromiche
Le smart windows consentono di progettare una “membrana adattiva”, in dialogo con l’ambiente circostante, puntando a massimizzare il comfort termico e visivo. Esse si basano sull’impiego di materiali e dispositivi cromogenici, ossia un’ampia gamma di materiali responsivi, o smart, capaci di cambiare caratteristiche cromatiche in ragione della variazione di uno stimolo esterno specifico. Il target dei sistemi cromogenici consiste nel controllo dinamico del fattore di trasmissione solare g (rapporto tra energia termica globalmente trasmessa dalla lastra e quella incidente). I dispositivi elettrocromici consentono di modulare le proprietà spettrali in risposta all’applicazione di una tensione.
Secondo diversi ricercatori, tra cui Azens et al., il risparmio energetico derivante da una finestra elettrocromica supererebbe la produzione di energia elettrica che si otterrebbe applicando sulla medesima superficie un sistema fotovoltaico, di pari area. La specifica strategia di impiego del sistema smart window può massimizzare l’entità di tale beneficio. Il risparmio energetico derivante dall’impiego ottimale di una smart window come sistema vetrato consisterebbe in attenuazione dei consumi di energia elettrica per il raffrescamento in regime estivo e la riduzione dell’impiego di energia elettrica per l’illuminazione artificiale quando, ad esempio, si fosse costretti ad attivare schermature totali tradizionali in presenza di disagio visivo da sovrailluminamento e abbagliamento. Secondo C.G. Granqvist, l’entità di questa riduzione è di 30 kWh/m2 anno in termini di riduzione dell’energia per raffrescamento e circa 20 kWh/m2 per energia elettrica per illuminazione artificiale.
L’elettrocromismo, come già specificato è il fenomeno che permette il cambiamento di colore di una precisa gamma di materiali, detti elettrocromici, attraverso l’applicazione di una tensione esterna. Tale fenomeno si osserva sia in alcuni materiali organici che inorganici. Si adotta una suddivisione in materiali elettrocromici catodici e anodici in relazione al meccanismo di colorazione che può avvenire per riduzione catodica e/o ossidazione anodica.
Tra gli inorganici catodici i più diffusi sono gli ossidi di metalli di transizione quali il tungsteno, il vanadio, il molibdeno ed il titanio mentre tra gli anodici l’ossido di nichel. In particolare, uno dei materiali elettrocromici catodici più utilizzati è il triossido di tungsteno (WO3) il quale ha la peculiarità di agire quale conduttore misto, essendo un ossido in grado di garantire conduzione ionica ed elettronica al contempo. Il WO3 è un materiale che si organizza sotto forma di ottaedri, con atomi di tungsteno in posizione centrale, e ossigeno in posizione periferica. I canali vuoti formatisi tra gli ottaedri originano i cosiddetti “tunnel”, via di accesso privilegiato per la movimentazione e intercalazione di piccoli cationi, (protoni, ioni litio, sodio) (fig. 1).
La reazione reversibile di ossido-riduzione che spiega la colorazione e la decolorazione del triossido di tungsteno si innesca a seguito di un’iniezione di elettroni e della contemporanea intercalazione di piccoli cationi. La conseguente alterazione del “bandgap” del materiale ne comporta la modifica del colore: da trasparente, in condizioni normali, esso subisce una transizione ottica fino ad assumere una colorazione blu scuro, in funzione del livello di intercalazione cationica (definito dal rapporto x=Li/W). La transizione cromatica consegue all’iniezione di elettroni sui siti di tungsteno, che vedono mutare il proprio stato di ossidazione (da +6 a +5).
Come per i materiali inorganici, quelli organici sono a loro volta suddivisi in catodici ed anodici dipendentemente dal meccanismo di colorazione per riduzione ed ossidazione. Sono generalmente classificati in due principali categorie: a) piccole molecole organiche quali ad esempio il blu di Prussia, la classe dei viologeni e ftalocianine; b) polimeri semiconduttori organici policoniugati come le polianiline, politiofeni, polipirroli e loro derivati (poli-3,4 etilen diossitiofene, PEDOT). Per la loro la migliore filmabilità, proprietà di adesione, maggiore stabilità dei film e più ampia durabilità, i polimeri coniugati sono tra i materiali organici quelli più popolari ed impiegati in vetrate smart. Il meccanismo di colorazione tuttavia differisce da quello degli ossidi inorganici. In questo caso la colorazione è un processo che riguarda gli stati elettronici del polimero coniugato prima e dopo il drogaggio, “doping”, con conseguente modificazioni nello spettro di assorbimento indotte dal drogaggio con transizione dallo stato neutro coniugato non conduttivo alla forma polaronica o bipolaronica conduttiva. Tra i diversi polimeri conduttivi, la polianilina (PANI) ed i suoi derivati sono quelli maggiormente impiegati come materiali cromogenici anodici. La transizione cromatica da uno stato neutro di colore verde ad uno stato conduttivo di colore blu scuro è associata a fenomeni redox indotti dal doping con una variazione dalla forma “smeraldo” semi ossidata del PANI, PANI-ES (emeraldina sale), a quella completamente ossidata di pernigralina PANI-PS (pernigralina sale). Il processo reversibile di riduzione del PANI-PS a PANI-ES promuove la decolorazione passando dalla forma ossidata di colore blu/viola a quella ridotta di colore verde. è da osservare che la forma conduttiva salificata in seguito al drogaggio in soluzione acida (protonazione) è altamente insolubile nei più comuni solventi organici ed acquosi per cui il processo di deposizione dei film cromogenici avviene a partire dalla sua forma non drogata PANI-EB (emeraldina base) dispersa in un solvente organico quale il N-metil pirrolidone o toluene.
L’architettura più ricorrente dei dispositivi elettrocromici impiega due elettrodi in vetro o materiale plastico (e.g. poliestere, polietilene), rivestiti da ossidi conduttivi trasparenti (prevalentemente In2O3:Sn o SnO2:F). Sui due elettrodi così ottenuti vengono depositati due materiali elettrocromici dotati di funzionalità complementare, ad esempio ossido di tungsteno (a colorazione catodica) e ossido di nichel (a colorazione anodica). Tra gli elettrodi un elettrolita, liquido o gel, a cui è demandata la conduzione ionica dei piccoli ioni. Un circuito esterno collega i due elettrodi e consente l’applicazione di una tensione per l’attivazione della colorazione e decolorazione del dispositivo.
La formulazione dell’elettrolita più impiegata in letteratura scientifica è quella che prevede l’impiego di un sale di litio perclorato in carbonato di propilene od etilene. Lo studio della idonea formulazione della soluzione elettrolitica è di fondamentale importanza per garantire la durabilità del sistema, specialmente in vista dell’impiego industriale delle smart windows. Si osserva, in letteratura, un netto trend orientato al design di dispositivi elettrocromici con materiali completamente a stato solido. Tra i vari approcci è utile citare il tentativo di utilizzare il dispositivo elettrocromico, depositato su supporti trasparenti di poliestere, in un sistema di laminazione tra vetri. In questo caso, il dispositivo elettrocromico si presta agevolmente al processi di laminazione del vetro stratificato, con il vantaggio aggiuntivo di offrire modulazione cromatica.
Una linea di ricerca dell’Istituto di Nanotecnologia CNR-Nanotec di Lecce si occupa del design di dispositivi cromogenici a stato solido, ossia dispositivi elettrocromici fabbricati su singolo substrato (fig. 2) contenenti pellicole elettrolitiche solide, ad elevata conduzione ionica, con elevate trasparenza e compatibilità con gli strati elettrodici (catodo e anodo) e dotate di elevate performance e stabilità elettrochimica. Di fatto, la sostituzione di elettroliti gelatinosi, plasticizzati o liquidi con quelli in forma solida semplifica il processo di fabbricazione superando il classico design a sandwich in cui l’elettrolita interposto tra gli elettrodi della cella elettrochimica viene sigillato per impedirne la fuoriuscita o l’evaporazione del solvente e conseguente deterioramento delle proprietà elettro-ottiche ed elettro-chimiche del dispositivo. In questo caso l’elettrolita polimerico a stato solido consente la deposizione per “sputtering” di un sottile film di ITO (300 nm) altamente conduttivo e trasparente direttamente sulla superficie dell’elettrolita conferendo pertanto un carattere monolitico alla struttura del dispositivo. La stabilità del sistema, la durabilità e la facile integrazione nella struttura dell’infisso sono due punti di forza delle attività di ricerca in corso.
In collaborazione con i ricercatori del CNR Nanotec, un team di fisici tecnici del Politecnico di Bari indaga sui potenziali benefici derivanti dall’integrazione architettonica, “building integration”, di dispositivi elettrocromici innovativi in edifici, puntando a prefigurare, mediante affidabili strumenti di simulazione, risparmio energetico (riduzione dei costi di raffrescamento e illuminazione artificiale) e comfort visivo. Ulteriori indagini sono in corso per eseguire la valutazione del ciclo di vita, “life-cycle assessment”, dei dispositivi innovativi.
I molteplici settori applicativi delle smart windows sono: in primis, quello delle costruzioni, ma anche l’industria automobilistica (specchietti retrovisori e parabrezza) e l’aeronautica (ad esempio, sono elettrocromici i finestrini dei nuovi Boeing 787). Una delle prime installazioni italiane di smart windows è stata realizzata a Corsico (Mi), presso il Multicomfort Habitat Lab, di Saint-Gobain Italia.
Un lavoro di Tavares et al. del 2014 ha valutato i vantaggi economici derivanti dall’impiego delle finestre elettrocromiche nel caso di ammodernamento di edifici di area Mediterranea. È stato altresì dimostrato che i vetri elettrocromici impiegati negli edifici per uffici possono portare a significative riduzioni dei consumi energetici sia nelle nuove costruzioni sia nei lavori di ristrutturazione.
2 Smart windows fotoelettrocromiche e fotovoltacromiche
In anni più recenti (fine del XX secolo) la ricerca nel campo delle smart windows ha reso realistica la possibilità di progettare chiusure trasparenti in grado di veder modificata la propria selettività spettrale ed al contempo di produrre energia così come teorizzato nel 1996 dal celebre architetto T. Herzog et al., in Solar Energy in Architecture and Urban Planning. Nei suoi scritti auspicava infatti una maggiore attenzione nei riguardi dell’efficienza energetica nella costruzione di case e città prevedendo, anche, la possibilità di edificare costruzioni in grado di non richiedere apporti energetici nel corso della propria vita utile. Fino a prefigurare che potesse concretizzarsi uno scenario in cui le case potessero produrre e persino cedere energia, essendo dotate di involucri permeabili a luce, calore e aria in modo modificabile: “The permeability of the skin of a building towards light, heat and air, and its transparency must be controllable and capable of modification, so that it can react to changing local climatic conditions”. Tale scenario, oggi, viene pressoché imposto per direttiva europea, visto che si chiede, entro il 2020, di progettare esclusivamente edilizia “nearly zero energy”, ossia quasi a consumo energetico zero, secondo quanto introdotto e definito dalla Direttiva UE 2010/31/EU (“a building that has a very high energy performance. The nearly zero or very low amount of energy required should be covered to a very significant extent by energy from renewable sources, including energy from renewable sources produced on-site or nearby”).
L’intensificarsi degli sforzi scientifici miranti alla realizzazione di involucri edilizi fotovoltaici efficienti e allo sviluppo di tecnologie mature per la dispositivistica cromogenica (elettrocromica, cristalli liquidi), ha aperto la strada (fine XX secolo, 1996) al campo di indagine dei dispositivi “cromofotovoltaici” o “fotovoltacromici” trovando il proprio obiettivo proprio in questo rilevante sforzo di integrazione funzionale.
Il settore dei sistemi fotovoltaici ad alta integrazione architettonica, Building Integrated PhotoVoltaics (BIPV), rappresenta, senza dubbio, un settore di notevole interesse, in ambito scientifico e industriale. La definizione BIPV allude al fatto che i dispositivi fotovoltaici non siano meramente installati sull’involucro esterno di un edificio, ma vi siano completamente integrati, garantendo, oltra alla produzione di energia elettrica per conversione fotovoltaica, anche tutti gli altri requisiti prestazionali tipici del componente di involucro (trasparente od opaco) sostituito. Con l’adozione di questa strategia, il modulo BIPV, aggiungendo il requisito della produttività elettrica, potrà compensare il maggior costo rispetto a quelli del componente edile interamente sostituito (requisiti termici, acustici, protezione da aria e acqua, caratteristiche meccaniche, fattore di trasmissione luminosa). Se la building integration del fotovoltaico trova un’immediata applicazione in componenti opachi quali rivestimenti edilizi, pareti ventilate, coperture, e pensiline, il design dell’integrazione in componenti trasparenti diviene particolarmente complesso, dovendosi tenere in conto il mantenimento delle proprietà di selettività spettrale tipicamente in capo ai componenti finestrati. Lo sviluppo del BIPV sottintende uno sforzo multifattoriale che contempli la contemporanea considerazione di aspetti funzionali, estetici e caratteristiche dispositivistiche. È stato osservato dagli esperti dell’ International Energy Agency (IEA) che, anche in presenza di una efficienza fotovoltaica bassa, ad esempio del 5%, i 23 miliardi di metri quadri di tetti e facciate disponibili nei paesi più sviluppati permetterebbe la produzione di più di 1000 GWp di potenza elettrica.
Lo sviluppo di nuove tecnologie fotovoltaiche, ad esempio basate sull’impiego di film sottili o le nuove tecnologie fotovoltaiche disponibili a seguito della diffusione di materiali fotovoltaici innovativi – “dye sensitized solar cells“ (DSCs) o le più recenti “perovskite-based solar cells” – permette di prefigurare un’alta compatibilità con l’impiego in componenti finestrati. Questi ultimi dispositivi offrono il vantaggio di bassi costi di processo, e, quindi, sono fortemente compatibili con i costi di produzione di componenti edili standardizzati. Più problematica, invece, l’integrazione di moduli in silicio (c-Si o p-Si), che presentano requisiti di trasparenza solo attraverso gli spazi lasciati liberi dai moduli fotovoltaici opachi, configurando una “texture” luminosa, non priva di criticità in termini di effetti sul comfort visivo “indoor”.
Si configura, così, l’opportunità – o, persino, la necessità – di progettare un muro polifunzionale, “multifunctional wall”, che, oltre a garantire idonei requisiti prestazionali per l’impiego in un involucro edilizio, offra ulteriori performance, quali la produzione di energia elettrica e la gestione dinamica del fattore solare della vetratura. Le celle fotovoltaiche DSCs sono dei dispositivi fotoelettrochimici assai promettenti in termini di BIPV, la cui trasparenza dipende principalmente dallo spessore dello strato mesoporoso di ossido presente sul fotoanodo (principalmente biossido di titanio e ossido di zinco) e dall’assorbimento spettrale del colorante, “dye” impiegato, che, in definitiva, definisce il colore del dispositivo.
Un accorto design del dispositivo consente di ottenere sistemi fotovoltaici ad elevata trasparenza e una significativa compatibilità con l’impiego in facciate trasparenti. Andreas Hinsch et al., hanno dimostrato nel 2012 di aver realizzato un modulo DSC di dimensioni $60 \times 100$ cm2, con efficienza del 7.1%, destinati alla building integration. Si tratta di moduli di colore ambra, per via dell’impiego di un colorante metallorganico basato sul rutenio (N719). Potenzialmente, cambiando il colorante impiegato, il colore del pannello fotovoltaico può essere mutato per esigenze di design, aprendo a ventagli applicativi molteplici, sotto il profilo estetico.
Sulla base della promettente tecnologia delle celle fotoelettrochimiche “dye-sensitized”, o celle di Gratzel, negli anni '90, furono progettati dei dispositivi in grado di modulare il proprio assorbimento spettrale in funzione delle condizioni di irraggiamento presenti nell’ambiente esterno. Clemens Bechinger et al., (del NREL di Berkeley) pubblicarono sulla rivista Nature, nel 1996, un lavoro molto interessante inerente la prima cella fotoelettrocromica: in sostanza, una sorta di ibrido tra una cella fotovoltaica dye-sensitized e un dispositivo elettrocromico. Da un lato, il fotoanodo (TiO2+dye), quando illuminato, produce una fototensione, dall’altro, sul catodo, viene depositato un film di materiale elettrocromico (triossido di tungsteno, WO3). L’elettrolita presenta una formulazione simile a quella dei dispositivi fotovoltaici: essenziale, ai fini della colorazione del dispositivo sotto irraggiamento solare, la presenza di cationi di litio al suo interno. Questi ultimi, mossi dalla forza trainante, “driving force”, generata sul fotoelettrodo, possono migrare nella TiO2, intercalando nel film di WO3, caricatosi negativamente nel momento in cui il circuito esterno viene chiuso. L’architettura del dispositivo parte dal presupposto di un accurato studio dei livelli energetici, che favoriscono il passaggio degli elettroni dal primo semiconduttore inorganico, su cui sono generati, il TiO2, al secondo, il WO3, in cui attivano il meccanismo di colorazione. La contemporanea intercalazione di elettroni e cationi nella struttura ottaedrica del WO3 attiva la tipica reazione redox, che determina la colorazione del materiale. Questa prima dimostrazione di un dispositivo fotoelettrocromico, permise di apprezzare l’indubbio vantaggio di modulare il proprio stato cromatico impiegando la sola energia prodotta da conversione fotovoltaica.
Essendo noto che la colorazione dei dispositivi elettrocromici dipende significativamente dall’entità della driving force impiegata, si intravede facilmente il vantaggio conseguente dall’architettura disegnata da Bechinger: al di sotto di 0,3 sun non si attiva alcuna modulazione cromatica. Per valori più alti invece, esso produrrà valori significativi dei parametri fotovoltaici, fino a ottenere la transizione cromatica del dispositivo, da trasparente a blu scuro con intensità e cinetiche strettamente dipendenti dai parametri fotovoltaici generati nel dispositivo a seguito dell’irraggiamento presente nell’ambiente circostante. In questo modo, il dispositivo assume una funzionalità altamente responsiva, o smart, essendo in grado di reagire alle variazioni di irraggiamento solare disponibile, dando come output un diverso grado di assorbimento ottico.
Anni dopo, i ricercatori del Fraunhofer-ISE di Friburgo presentarono un’architettura leggermente diversa: il materiale elettrocromico, il WO3, viene questa volta depositato sul fotoanodo subito sopra il materiale conduttivo trasparente, ossia ossido di stagno drogato fluoro (FTO). Su di esso, uno strato di biossido di titanio di spessore contenuto (pochi micron) è sufficiente a svolgere funzione di fotoanodo, sul quale viene fatto adsorbire un dye. Sul controelettrodo è invece depositato un sottile strato di platino.
In condizioni di circuito aperto, quando il dispositivo viene irradiato con la luce solare, si instaura una fototensione e gli elettroni prodotti, trovando energeticamente favorevole il passaggio dalla TiO2 nel WO3, caricano il materiale negativamente, attivando l’attrazione dei cationi di litio presenti nell’elettrolita liquido. In tal modo, il dispositivo tende a colorare. La chiusura del circuito, ottenuta collegando, mediante un circuito esterno, il fotoanodo al controelettrodo di platino, permette da un lato la decolorazione del dispositivo e dall’altro l’attivazione di una blanda attività fotovoltaica (efficienza di conversione fotovoltaica: 0.05%).
In quello stesso periodo, diversi altri dispositivi fotoelettrocromici sono apparsi in letteratura scientifica, con varianti più o meno significative sia nell’architettura che nei materiali impiegati.
Punti cruciali, in tutti i tentativi esperiti, la massimizzazione della trasparenza del dispositivo nello stato decolorato, o “bleached”, e la durabilità del dispositivo. I dispositivi elettrocromici, presentando le caratteristiche di due differenti famiglie di dispositivi – elettrocromici e fotovoltaici – presentano una significativa complessità sotto il profilo della durabilità e della compatibilità dei materiali, in particolar modo in corrispondenza delle interfacce. Ad esempio, Liu et al., nel 2008 presentarono un dispositivo in cui il fotoelettrodo era costituito da fili di titanio rivestiti con TiO2 nanocristallino sensibilizzato con colorante, al fine di incrementare la trasmittanza nello stato decolorato (circa 68%).
Un passaggio evolutivo significativo nel settore scientifico delle smart windows fotoelettrocromiche fu quello proposto da Wu et al., nel 2009, in cui venne discusso il primo dispositivo “fotovoltacromico”. Si trattava del primo dispositivo in grado di presentare dichiaratamente una duplice funzione: quella fotovoltaica (efficienza di conversione fotovoltaica ancora bassa: 0.5%) e quella fotoelettrocromica, potendo manifestare una modulazione cromatica dipendente dall’irraggiamento solare disponibile. Il layout del dispositivo era caratterizzato dalla disposizione “frame-type” – ossia a cornice – del fotoelettrodo di TiO2, praticamente opaco, e da una finestra quadrata trasparente, deputata alla modulazione cromatica.
Il principale punto di forza di questo dispositivo è la rapida colorazione del dispositivo sotto luce in condizioni di corto circuito, accelerata per l’azione catalitica del platino; tra i punti deboli, la bassa efficienza fotovoltaica osservata e l’impossibilità di controllare, separatamente, la funzionalità fotovoltaica e quella fotoelettrocromica. L’impossibilità di un comportamento interattivo potrebbe, infatti, costituire un vincolo in termini di impiego industriale del dispositivo. Un’evoluzione del dispositivo fotovoltacromico è stata rappresentata dal lavoro congiunto del gruppo di ricerca dell’Istituto di Nanotecnologia CNR-Nanotec di Lecce ed del dipartmento di Fisica dell’Università di Oxford, apparso sulla rivista scientifica Energy and Environmental Science, in cui il dispositivo fotovoltacromico ha presentato delle innovazioni sia sull’architettura del dispositivo, sia sulla formulazione dell’elettrolita, come di seguito specificato (fig. 3).
Una serie di attività di ingegnerizzazione del controelettrodo hanno permesso di ottenere due importanti risultati: da un lato, la separazione dell’area di platino da quella di triossido di tungsteno ha consentito di controllare disgiuntamente la funzionalità fotovoltaica e quella fotoelettrocromica; dall’altro, è stato possibile effettuare misure accurate del dispositivo sotto il profilo elettro-ottico ed elettrochimico, investigando accuratamente la mutua influenza tra il fenomeno della colorazione elettrocromica e le performance di conversione fotovoltaica del dispositivo fotovoltacromico. Si è giunti alla conclusione secondo cui lo spostamento della minima aliquota di cationi litio coinvolti nel meccanismo di intercalazione non inficia le caratteristiche fotovoltaiche del dispositivo in misura significativa. La formulazione dell’elettrolita liquido è stata peraltro ottimizzata al fine di pervenire a un giusto compromesso tra la funzionalità fotovoltaica e quella fotoelettrocromica. Infatti, la riduzione della concentrazione di iodio e, d’altro canto, l’impiego di additivi specifici (4-tert-butylpyridine), hanno consentito di incrementare i valori di fototensione ottenendo efficienze di conversione fotovoltaica pari al 6.55%, fermi restando i più che soddisfacenti parametri di cinetica elettrocromica.
Ai fini della applicazione dei dispositivi fotovoltacromici in ambito BIPV, si è pensato di attuare delle strategie di ottimizzazione della trasparenza del dispositivo, incrementando, parallelamente, la superficie del fotoanodo attraverso la progettazione di dye organici in grado di coniugare elevata trasparenza e una buona efficienza di conversione fotovoltaica. A tale scopo, sono stati progettati dei dispositivi con controelettrodo interdigitato [16] per ridurre l’impatto della superficie di platino sulla trasparenza complessiva del dispositivo ed evitare così, di dover distinguere due superfici differenti nel dispositivo: una deputata alla conversione fotovoltaica e l’altra alla colorazione smart.
In parallelo, sono stati condotti degli studi in collaborazione con i ricercatori dell’università di Sydney per verificare l’effettivo vantaggio che potrebbe derivare dalla integrazione dei sistemi fotovoltacromici in architettura. Dalle simulazioni dei dispositivi in larga scala sono emersi dei dati molto interessanti: sotto il profilo del comfort visivo indoor, rispetto a una finestra standard, si è potuto accertare che una finestratura fotovoltacromica produrrebbe impatti benefici sia in termini di una significativa riduzione dei fenomeni di abbagliamento sia in termini di massimizzazione dei punti dell’ambiente in cui si gode di condizioni di illuminamento ottimale. Tali risultati sono particolarmente significativi nelle esposizioni sud ed est, per le quali si ravvisa la maggiore necessità di impiego per sistemi di schermatura. La mancata diffusione commerciale delle celle di Gratzel ha avuto ripercussioni nella ridotta industrializzazione dei dispositivi, con il conseguente rallentamento dello sviluppo di tutte le tecnologie ad esse collegate, tra cui le celle fotovoltacromiche.
Recentemente, la comparsa di dispositivi fotovoltaici completamente a stato solido, basati sull’impiego di perovskiti, ha consentito di pensare, parallelamente, a sistemi fotovoltacromici di nuova generazione. Una particolare gamma di perovskiti, di particolare interesse per applicazioni in BIPV, è stata progettata in modo da permettere di fabbricare celle fotovoltaiche dotate di una trasparenza relativamente più elevata. Partendo da queste premesse, sono state avviate attività di collaborazione scientifica tra l’Istituto di Nanotecnologie CNR-Nanotec di Lecce e il Dipartimento di Fisica dell’Università di Oxford. In questo ambito è stato progettato il primo dispositivo fotovoltacromico che comprende un film fotovoltaico basato su perovskite, il quale fornisce le potenza elettrica idonea ad attivare la colorazione di un sistema elettrocromico basato su WO3 come materiale catodico cromogenico ed un elettrolita polimerico plasticizzato costituito da polietilene ossido (PEO) ad alto peso molecolare, ioduro di litio (LiI) e glicole di polietilene come additivo plasticizzante. La formulazione dell’elettrolita è stata ottimizzata variando i rapporti molari tra il sale di litio ed il polimero al fine di aumentarne la conducibilità ionica e di conseguenza le performance del dispositivo. Dissolvendo i sali di litio, il PEO riesce infatti a formare delle soluzioni elettrolitiche solide (attraverso la coordinazione degli ioni Li+ da parte degli atomi di ossigeno del polimero), più facilmente processabili rispetto ai più comuni elettroliti liquidi e quindi in grado di operare in condizioni di elevata sicurezza. I risultati ottenuti con questa innovativa architettura hanno trovato recentemente spazio sulla rivista Energy and Environmental Science, lasciando prefigurare più ampi margini di impiego delle celle fotovoltacromiche nel settore BIPV, dati i valori ottici soddisfacenti, l’elevata efficienza fotovoltaica e, soprattutto, la durabilità del sistema e la facilità del processo di fabbricazione. Una pubblicazione molto recente analizza nel dettaglio gli aspetti molteplici della transizione verso sistemi a stato solido illustrando i principali costituenti ed innovazione dei materiali con un focus critico sull’evoluzione della dispositivistica a partire dai primi sistemi fotoelettrocromici.