Una nuova luce sugli oggetti più estremi del cosmo

La (ri)nascita della polarimetria astronomica a raggi X

Luca Baldini


1 Introduzione

La radiazione elettromagnetica trasporta essenzialmente quattro tipi distinti di informazione: direzione, tempo, energia e polarizzazione. Le prime tre proprietà della luce sono familiari a tutti noi, e le corrispondenti tecniche osservative (imaging, timing e spettroscopia) sono ormai strumenti di routine per lo studio degli oggetti celesti a tutte le lunghezze d’onda. Gli sviluppi che queste tre branche dell’astronomia X hanno vissuto, sulla scorta dei progressi tecnologici dell’ultimo mezzo secolo, sono niente meno che spettacolari ed è sufficiente, e.g., uno sguardo anche distratto ad una delle ormai celebri immagini di Chandra (come quella mostrata in fig. 1) per avere un’idea del grado di sensibilità e del livello di dettaglio raggiunti.

La polarizzazione è una proprietà della luce comparativamente più complessa, che ha a che vedere con la direzione di oscillazione del campo elettrico associato alla luce stessa. Per un’onda piana il campo elettrico, il campo magnetico e la direzione di propagazione del fotone formano una terna ortogonale; quando il vettore campo elettrico è confinato ad oscillare in un piano fissato l’onda si dice polarizzata linearmente–e la direzione del campo elettrico stesso definisce l’angolo di polarizzazione. La situazione può essere in pratica significativamente più complicata, specialmente nel caso di una sovrapposizione di treni d’onda, e in generale la radiazione può avere un grado di polarizzazione arbitrario compreso tra 0 (non polarizzata) ed 1 (completamente polarizzata), ma qualitativamente il semplice quadro che abbiamo delineato non cambia.

Detto questo, non possiamo non partire da alcune domande ovvie: la polarimetria astronomica a raggi X ha un qualche interesse scientifico? A che livello? Quali sono le informazioni che essa è in grado di fornirci–da sola ed in sinergia con le altre tecniche osservative dell’astronomia X? E quali sono le informazioni, se esistono, che non sarebbero accessibili per altra via? La risposta a queste domande passa in prima istanza attraverso la semplice constatazione che, sulla base della nostra comprensione dei processi fisici in atto, ci si attende un livello più o meno elevato di polarizzazione lineare in una grande varietà di sorgenti astronomiche. I fenomeni di accelerazione ed i processi di emissione non termica in generale (e.g., la radiazione di sincrotrone) producono per loro stessa natura radiazione intrinsecamente polarizzata. E anche laddove i processi di emissione in atto siano di natura termica, la propagazione in mezzi birifrangenti e/o la diffusione in geometrie non sferiche può far acquisire un grado di polarizzazione non nullo a radiazione originariamente non polarizzata. In un certo senso potremmo ribaltare l’argomento e dire che l’assenza totale di polarizzazione netta è una condizione comparativamente inusuale, che richiede condizioni di simmetria ad hoc nella sorgente per potersi verificare. In questo senso la misura del grado e dell’angolo di polarizzazione è potenzialmente in grado di fornire informazioni dirette sulla geometria e sulla configurazione del campo magnetico della sorgente–informazioni che nella maggior parte dei casi non sono ottenibili per altra via e che sostanzialmente aggiungono due parametri indipendenti allo spazio delle fasi in cui i dati si confrontano con i modelli.

La zoologia dei sistemi astrofisici cui quanto appena detto si applica è estremamente varia, ed il lettore può trovare un resoconto relativamente aggiornato dello stato dell’arte, insieme ad una lista esauriente di riferimenti bibliografici. I resti di supernova sono esempi prototipici in cui la turbolenza del campo magnetico in corrispondenza dei fronti d’onda è uno degli ingredienti fondamentali alla base del paradigma corrente di accelerazione dei raggi cosmici galattici, e la mappatura delle proprietà polarimetriche degli fronti stessi su scale spaziali opportune può fornire in linea di principio informazioni preziose e complementare alla spettroscopia ed all’imaging. Per le pulsar, isolate o al centro di resti di supernova, l’andamento delle caratteristiche polarimetriche della radiazione in funzione della fase di rotazione costituisce una diagnostica estremamente potente dei processi di emissione che hanno luogo in questi sistemi. Al di fuori della nostra Galassia, i nuclei galattici attivi (AGN) costituiscono un’altra classe di sorgenti in cui ci si aspetta un grado di polarizzazione potenzialmente misurabile (dell’ordine di 1–10%). Il fatto stesso di avere a disposizione sorgenti di radiazione potenzialmente polarizzata a distanze cosmologiche costituisce un laboratorio eccezionale per test di fisica fondamentale (e.g., una possibile birifrangenza del vuoto) su scale di lunghezza inaccessibili sulla Terra. Capitolo completamente diverso, ma non meno interessante, è quello della fisica dei sistemi estremi, in cui la polarimetria a raggi X ha il potenziale di testare predizioni specifiche di relatività generale o elettrodinamica quantistica in regime di campo forte–ne sono esempi, rispettivamente, i dischi di accrescimento attorno ad oggetti compatti e le magnetar.

A fronte di un caso scientifico così complesso e variegato, e a dispetto degli indubbi successi della polarimetria astronomica a lunghezze d’onda più grandi (e.g., nell’ottico e nel radio), sorprenderà il fatto che, da un punto di vista osservativo, la storia della polarimetria a raggi X ha di fatto inizio e termine negli anni '70. Essa consta essenzialmente di un’unica misura incontrovertibile, quella della nebulosa del Granchio eseguita dalla missione OSO-8, che a più di quarant’anni di distanza costituisce ancora lo stato dell’arte. Il resto della storia, fino ai giorni nostri, è segnata da una lunga serie di circostanze avverse ed aspirazioni frustrate. Un polarimetro a raggi X originariamente previsto per la missione Einstein ed eliminato nella configurazione finale lanciata con successo alla fine del 1978. Lo Stellar X-Ray Polarimeter (SXRP), costruito e calibrato per la versione originale della missione Stellar Rontgen Gamma (SRG), cancellata tout court nel 2002. E, più di recente, la proposta Gravity and Extreme Magnetism SMEX (GEMS), selezionata dalla NASA nel 2009 per un lancio nel 2014, ma cancellata nel 2012 per motivi programmatici.

Uno dei fattori determinanti in questo senso, è stata la scarsa sensibilità ottenibile nel quadro delle due tecniche standard tradizionalmente impiegate sin dagli anni '70: la diffrazione di Bragg a 45 gradi e la diffusione Thomson a 90 gradi. La prima, a dispetto di fattori di modulazione prossimi all’unità, è caratterizzata da una scarsa banda passante in energia (una serie di armoniche tipicamente molto strette in corrispondenza delle soluzioni della legge di Bragg) ed è dispersiva (si misura, cioè, una angolo alla volta). La seconda è intrinsecamente limitata alle basse energie dal fatto che la diffusione diviene sottodominante rispetto all’effetto fotoelettrico ed è non-imaging. Entrambe richiedono, per loro natura, di mettere in rotazione l’apparato–e le difficoltà tecniche che ne conseguono hanno storicamente costituito un ulteriore fattore di disincentivo all’inserimento di un polarimetro nel piano focale dei grandi osservatori X.

2 Formalismo di base e tecniche della polarimetria a raggi X

Un polarimetro è essenzialmente uno strumento che misura un’asimmetria (o modulazione) azimutale nel piano ortogonale alla direzione di propagazione della radiazione–e questa asimmetria è proporzionale al grado di polarizzazione della radiazione stessa e con una fase caratteristica coincidente con l’angolo di polarizzazione corrispondente.

Se la risposta azimutale ha la forma tipica

$ R ( \varphi ) = A + B \mathrm{cos}^{2} ( \varphi - \varphi_{0} ) $ ,

la visibilità della modulazione per radiazione incidente polarizzata linearmente al 100% è uno dei parametri fondamentali di un polarimetro, che prende il nome di fattore di modulazione

$ \mu = \frac{R_{max} - R_{min}}{R_{max} + R_{min}} = \frac{B}{B+2A} $ .

Per fissare le idee: uno strumento con fattore di modulazione pari all’unità è un polarimetro perfetto; un fattore di modulazione nullo, d’altra parte, implica l’assenza di qualsiasi sensibilità alla polarizzazione. Il fattore di modulazione è uno dei due ingredienti fondamentali che, in termini pratici, concorrono a determinare la sensibilità di un polarimetro. L’altro, come vedremo tra un attimo, è banalmente il numero totale N di fotoni raccolti in una specifica osservazione. Questi due fattori concorrono a definire la Minimum Detectable Polarization (MDP), o polarizzazione minima rivelabile:

$ MDP = 4.29 \frac{\mu}{\sqrt{N}} $ ,

vale a dire il livello di polarizzazione della sorgente corrispondente alla modulazione strumentale che ha la probabilità dell’1% di essere rivelata per una fluttuazione statistica.

Va da sé che, in pratica, il numero di fotoni rivelati è connesso al tempo di integrazione necessario attraverso il flusso della sorgente e l’area di raccolta delle ottiche, ma l’espressione appena scritta è la chiave per comprendere la statistica di base della misura. Anche immaginando di avere a disposizione un polarimetro perfetto ($\mu = 1$) servono circa 184000 fotoni per raggiungere una MDP pari all’1%. Per confronto, l’adagio tipico dell’astronomia $X$ è che basta una manciata di fotoni per identificare una sorgente, ed un centinaio per una misura ragionevole delle sue proprietà spettrali. Proprio la lunghezza dei tempi scala di osservazione necessari, e più specificamente la discrepanza con quelli tipici dell’imaging e della spettroscopia, è uno dei fattori determinanti che, come abbiamo detto, ha impedito alla polarimetria a raggi X di divenire una tecnica osservativa di routine.

3 Polarimetria ad effetto fotoelettrico: il Gas Pixel Detector

In linea di principio l’effetto fotoelettrico è un analizzatore perfetto per la polarizzazione. Per fotoni tra 1 e 10 keV (ove i flussi delle sorgenti sono relativamente intensi e le ottiche a raggi X sono estremamente efficienti) è il processo di interazione con la sezione d’urto più alta e, cosa più importante, la direzione di emissione del fotoelettrone (per fotoassorbimento su shell K) è modulata al 100% nel caso di radiazione polarizzata. Il problema fondamentale è che a queste energie gli elettroni hanno una capacità di propagazione nella materia molto limitata: anche in una miscela di gas relativamente leggera il range di un elettrone di qualche keV non è più lungo di qualche centinaio di μm–ed è tipicamente tre ordini di grandezza più piccolo in un solido. Da un punto di vista tecnologico, dunque, la sfida è proprio quella di riuscire a campionare la traccia di un fotoelettrone di così bassa energia con un dettaglio sufficiente a ricostruirne la direzione di emissione, che a sua volta permette di misurare su base statistica il grado e l’angolo di polarizzazione della radiazione incidente.

L’introduzione dei Micro-Pattern Gas Detector (MPGD) è stato lo sviluppo tecnologico fondamentale che ha aperto la via, alla fine degli anni ‘90, alla prima implementazione praticamente utilizzabile di un polarimetro X ad alta efficienza che utilizzasse l’effetto fotoelettrico. La fig. 2 mostra schematicamente la struttura di un Gas Pixel Detector (GPD) per applicazioni polarimetriche nella geometria descritta in bibliografia. Il principio di funzionamento è sorprendentemente semplice. Il fotone incide ortogonalmente al piano del rivelatore attraversando una sottile finestra (e.g., di berillio). Se assorbito nella regione attiva (una cella sigillata dello spessore di circa 1 cm riempita con una opportuna miscela di gas) provoca l’emissione di un fotoelettrone che, ionizzando il gas stesso, lascia lungo la sua traccia una serie di coppie elettrone-ione. (La dinamica dell’effetto fotoelettrico è tale che il fotoelettrone è emesso preferenzialmente nel piano ortogonale alla direzione di propagazione del fotone originale, il che rende una geometria di lettura bidimensionale come quella mostrata in figura estremamente favorevole per il campionamento della traccia.) Gli elettroni della ionizzazione primaria sono quindi trasportati verso il piano di lettura per mezzo di un opportuno campo elettrico, moltiplicati e raccolti su un anodo di lettura finemente segmentato.

Gli ingredienti fondamentali del GPD nella geometria mostrata in figura sono dunque due: il Gas Electron Multiplier (GEM) ed il circuito integrato di lettura.

Il GEM consiste in un sottile strato di dielettrico metallizzato su entrambe le facce in cui viene praticata una matrice regolare di fori circolari, come mostrato in fig. 3. L’applicazione di una opportuna differenza di potenziale tra le facce (tipicamente qualche centinaio di V) fa sì che il campo elettrico all’interno dei fori sia abbastanza intenso da innescare una valanga in regime proporzionale al passaggio di una particella carica. Il GEM serve dunque a moltiplicare la ionizzazione primaria, che per fotoelettroni di qualche keV consta di una miscela tipica di circa un centinaio di elettroni, in modo che il segnale generato sull’anodo di lettura sia abbastanza grande da poter essere amplificato e digitalizzato con una catena di elettronica standard (i valori di guadagno efficace necessario per questa applicazione sono dell’ordine di qualche centinaio). Le caratteristiche peculiari del GEM sono che esso permette di disaccoppiare totalmente lo stadio di guadagno da quello di lettura, preservando allo stesso tempo, sotto opportune condizioni, l’informazione spaziale contenuta nella ionizzazione primaria. Pur trattandosi di un dispositivo che ha ormai una storia consolidata di applicazione in fisica delle alte energie ed imaging a raggi X, per la nostra applicazione è stato necessario spingere ai limiti le tecnologie di incisione per arrivare ad un passo di 50 μm (molto più piccolo dei valori tipici per le applicazioni summenzionate) mantenendo allo stesso tempo la necessaria uniformità sulla superficie.

Il cuore vero e proprio del GPD è però l’anodo di lettura, che ha richiesto una attività di ricerca e sviluppo di durata decennale per raggiungere le prestazioni ed il livello di maturazione necessario per l’impiego in una missione spaziale. Nello sforzo di superare le limitazioni intrinseche di un approccio basato su semplici circuiti stampati, che pure ha permesso di realizzare con successo prototipi funzionanti, e di dimostrare la validità di principio del nostro approccio, sono stati sviluppate negli anni tre generazioni di circuiti integrati dedicati, con superficie attiva e caratteristiche via via migliori (fig. 4). Comune a queste tre generazioni di ASIC è l’architettura complessiva: l’organizzazione in una matrice di pixel esagonali in cui lo strato metallico superiore funge direttamente da anodo di collezione di carica ed ogni pixel contiene al suo interno una catena completa di elettronica (preamplificatore, shaper, sample and hold) e la lettura è seriale attraverso un convertitore analogico digitale esterno. Nella sua versione più avanzata, quella che volerà al piano focale di IXPE, il circuito integrato comprende 352 × 300 pixel a passo di 50 μm per una superficie attiva totale di circa 1,5 × 1,5 cm2, numeri che si accordano bene con le ottiche ad incidenza radente che verranno utilizzate per la missione, sia in termini di Point-Spread-Function (PSF) che in termini di campo di vista. Una delle caratteristiche salienti di quest’ultima generazione di ASIC è la funzionalità di selftriggering e la capacità di auto-selezionare una regione di interesse attorno ai pixel che registrano un segnale fisico, che permette di evitare la lettura seriale dell’intero integrato (che come abbiamo detto contiene più di 100000 pixel) abbattendo di tre ordini di grandezza il tempo necessario per l’acquisizione di un frame.

La fig. 5 mostra una traccia di un fotoelettrone reale acquisita con un GPD nella configurazione illustrata sopra. La scala di colori è indicativa del segnale indotto su ciascun pixel, ovvero della densità locale di ionizzazione, e mette in luce il dettaglio con cui il GPD è in grado di risolvere la traccia–è chiaramente visibile, ad esempio, il picco di Bragg alla fine della traccia. L’algoritmo base di ricostruzione consiste in una prima analisi dei momenti della distribuzione di carica attorno al suo baricentro per identificare l’asse principale della distribuzione stessa. La presenza del picco di Bragg fa sì che il momento terzo della proiezione longitudinale della carica sull’asse principale permetta poi di distinguere la parte iniziale della traccia da quella finale e fornisce una stima del punto di assorbimento significativamente più accurata del baricentro. A questo punto una seconda analisi dei momenti, in cui i pixel sono opportunamente pesati a seconda della distanza stimata dalla posizione di assorbimento, fornisce la stima finale della direzione di emissione del fotoelettrone.

La peculiarità del GPD come rivelatore di piano focale è la capacità, unica nel suo genere, di misurare contemporaneamente le quattro proprietà della radiazione incidente: direzione, tempo, energie e, per la prima volta, polarizzazione. La tabella 1 riassume le proprietà strumentali del GPD nella configurazione studiata per la missione IXPE.

4 La missione Imaging X-ray Polarimetry Explorer

La selezione della proposta IXPE come prossima missione del programma SMEX della NASA costituisce il riconoscimento di uno sviluppo tecnologico interamente Italiano che ha permesso un salto in avanti di almeno un ordine di grandezza in sensibilità rispetto alle tecniche tradizionali della polarimetria a raggi X. Questo è ancora più notevole in considerazione del fatto che questo salto in avanti è stato possibile all’interno dell’inviluppo relativamente stretto di una missione “piccola”: 300 kg di massa totale, 200 W di potenza e poco più di 1 m3 di spazio disponibile per il lancio.

La fig. 6 mostra una rappresentazione artistica di IXPE in configurazione di presa dati. Lo strumento è composto da tre telescopi identici, ciascuno dei quali è composto da un’ottica per raggi X, che serve a focalizzare i fotoni per incidenza radente su una serie di specchi concentrici annidati, ed un GPD posto al fuoco dell’ottica stessa. Sarà messo in un’orbita circolare equatoriale ad un’altezza di 540 km da un lanciatore Pegasus e, per permettere allo strumento di entrare nello spazio disponibile nel vano di carico del lanciatore stesso, le ottiche sono collegate al piano focale attraverso un traliccio estensibile. IXPE sarà lanciato in configurazione “ripiegata” ed il traliccio si estenderà fino alla lunghezza focale di disegno (4 m) una volta in orbita, dopo la separazione della satellite dal lanciatore ed il dispiegamento dei pannelli solari. Le principali caratteristiche del telescopio e della missione sono riassunte nella tabella 2.

Una volta in configurazione operativa, IXPE darà avvio al suo programma osservativo, che lo porterà a puntare in modo nuovo decine di sorgenti diverse, galattiche ed extragalattiche, per periodi di tempo variabile da poche ore a svariati giorni a seconda del flusso della sorgente stessa e del grado di polarizzazione atteso. Per alcune delle sorgenti più intense IXPE sarà in grado di misurare il grado e l’angolo di polarizzazione lineare in funzione dell’energia, del tempo (o della fase di rotazione per le sorgenti periodiche) o della posizione, come mostrato nella simulazione in fig. 7 nel caso del residuo di supernova Cassiopea A. In ogni caso IXPE fornirà informazioni preziose e non accessibili per altra via su alcuni degli oggetti più estremi dell’Universo conosciuto.

Con la missione X-ray Imaging Polarimetry Explorer (XIPE) attualmente in fase di studio dall’Agenzia Spaziale Europea, e la proposta congiunta Europa-Cina enhanced X-ray Timing and Polarimetry (e-XTP), ciascuna delle quali prevede GPD simili a quelli che verranno utilizzati per IXPE, la polarimetria a raggi X potrebbe, a quarant’anni di distanza dalla sua nascita, entrare finalmente a pieno titolo tra le tecniche standard dell’astronomia X.