Dose al paziente nelle indagini radiologiche

Conoscerla per limitarla

Giampiero Tosi


1 Introduzione

Tutti gli individui della popolazione del nostro pianeta sono esposti alla radiazione dovuta al “fondo naturale”, composta in parte da radiazione di origine cosmica (costituita da una componente primaria di protoni e, in misura minore di particelle α e nuclei di elementi leggeri e pesanti, e da una componente secondaria di fotoni, elettroni, neutroni, mesoni μ e π) e da radionuclidi cosmogenici (3H, 14C e numerosi altri), in parte da radiazioni di origine terrestre prodotte da nuclei radioattivi contenuti nella crosta terrestre e appartenenti alle famiglie del 232Th e del 238U (fra i quali quello che contribuisce maggiormente alla dose è il gas radon, 222Rn).

La dose efficace media per ogni individuo della popolazione mondiale è pari a 2,4 mSv/anno. Si deve peraltro rilevare che:

• la dose dovuta alla radiazione di origine cosmica è minima (circa 0,3 mSv/anno) al livello del mare in conseguenza dell’effetto schermante prodotto dall’atmosfera terrestre mentre, in prima approssimazione, raddoppia ogni 2000 metri di quota;
• la dose dovuta a radiazioni di origine terrestre è molto variabile da zona a zona, dipendendo fortemente dalla composizione del suolo e delle rocce.

In Italia la dose dovuta a radiazioni di origine terrestre è massima nelle aree vulcaniche del Lazio, della Campania e della Sicilia (1,5–2,5 mSv/anno) ed è minima nella Valle d’Aosta (circa 0,5 mSv/anno).

I livelli della dose dovuta al fondo naturale e i relativi intervalli sono riassunti nella tabella 1 (vedi PDF).

2 Tipo e frequenza delle indagini radiologiche

La produzione di “immagini radiologiche” ottenute sfruttando la differenza fra i coefficienti di attenuazione nei vari tipi di tessuti dei raggi X generati a tensioni comprese fra 20 e 150 kV costituisce, a partire dalla scoperta dei raggi X (Röntgen, 1895) uno strumento fondamentale della moderna medicina. Tali immagini possono essere acquisite e utilizzate per due scopi principali:

• diagnostico, con il fine di ottenere informazioni atte a confermare, oppure a escludere, il sospetto clinico di una patologia (esami radiologici);
• interventistico, cioè di guida all’esecuzione di procedure medico-chirurgiche che richiedono la visualizzazione in tempo reale di una regione corporea sulla quale deve essere eseguito un intervento terapeutico (riduzione di fratture, inserimento di stent vascolari, rimozione di calcoli, ecc.). Queste procedure di “radiologia interventistica” vengono definite –ai fini delle implicazioni radioprotezionistiche– come “attività radiodiagnostiche complementari all’esercizio clinico” (D.lgs. 187/2000).

Per l’esecuzione di tali procedure (diagnostiche e interventistiche) vengono utilizzate “apparecchiature radiologiche” tutte costituite, sostanzialmente, da:

• un generatore di alta tensione,
• un tubo a raggi X,
• un sistema di visualizzazione delle immagini (radiografiche, tomografiche/ fluoroscopiche),
• uno o più accessori, cioè dispositivi finalizzati all’esecuzione delle singole procedure.

L’ICRP ha stimato che, nel 2005, esistessero nel mondo circa 2 milioni di apparecchiature radiologiche. è verosimile che, al presente, tale numero sia superiore di almeno il 50%. La frequenza delle indagini radiologiche varia in misura molto rilevante nei vari paesi del pianeta. Nei paesi sviluppati, fra i quali ovviamente l’Italia, è stato stimato che, nel periodo 1997–2007, la frequenza annua delle procedure radiologiche generali sia stata pari a 1332/1000 abitanti, e quella degli esami odontoiatrici (dentali) a 275/1000 abitanti.

A tali frequenze corrisponde una dose efficace pro capite di 1,92 mSv/anno, molto vicina, se non superiore, alla dose dovuta al fondo naturale.

È verosimile che nell’ultimo decennio, frequenza e dose efficace pro capite e collettiva siano ulteriormente aumentate, soprattutto in conseguenza del ricorso sempre maggiore agli esami di tomografia computerizzata (TC).

3 Descrittori della dose nelle procedure radiologiche

Nel corso dell’esecuzione di qualsiasi procedura radiologica, viene esposta al fascio diretto di raggi X una regione del corpo del paziente più o meno estesa, a seconda della procedura e delle specifiche esigenze cliniche. Tale regione assorbe quindi una dose di radiazioni molto più elevata di quella assorbita dal resto del corpo, che è esposto soltanto alla radiazione diffusa e a quella di fuga dal “complesso tuboguaina” (il tubo radiogeno inserito nella guaina, o cuffia, di protezione).

Al fine di stimare il rischio di danni immediati e di possibili effetti tardivi, è necessario approfondire il concetto di “dose”. Per questo scopo sono stati definiti, e vengono applicati alle singole procedure, alcuni descrittori della dose, intesi come parametri fisico-dosimetrici misurabili, in grado di valutare le dosi ai singoli pazienti e di confrontare dal punto di vista dosimetrico procedure radiologiche diverse.

Nell’ambito delle procedure radiografiche e fluoroscopiche il descrittore fondamentale è l’ESAK (Entrace Surface Air Kerma), definito come il kerma in aria (dose misurata in aria) nel punto di intersezione fra l’asse del fascio e la superficie di ingresso del fascio stesso nel paziente. Il suo valore dipende:

• dal valore dell’alta tensione (kV) applicata al tubo e dalla filtrazione del fascio;
• dal valore del prodotto della corrente anodica (mA) per la durata dell’esposizione (s), espresso in mAs;
• dalla distanza d fra il fuoco del tubo e la superficie di ingresso del fascio nel paziente:
ESAK = f (kV, filtrazione, mA s, 1/d2).

La dose in corrispondenza della superficie di ingresso del fascio nel paziente, ESD (Entrance Surface Dose), è data dal prodotto del valore dell’ESAK per un fattore di retrodiffusione BSF (backscatter factor), il cui valore dipende dall’ampiezza della sezione del fascio, dallo spessore della regione corporea irradiata e dall’energia media del fascio (con un massimo intorno ai 60 keV):

ESD = ESAK × BSF.

Per la misura dell’ESAK e dell’ESD è possibile utilizzare camere a ionizzazione, cilindriche o piatte, opportunamente calibrate (vedi fig. 1).

Per la valutazione della dose nelle procedure fluoroscopiche il descrittore più appropriato è il DAP (Dose Area Product u.d.m.: Gy · cm2), definito come il prodotto –il cui valore è costante su tutto il percorso del fascio– dell’area della sezione del fascio a una qualsiasi distanza dal fuoco del tubo per la dose in aria sull’asse del fascio, alla stessa distanza. Sul complesso tubo-guaina di tutte le apparecchiature radiologiche per fluoroscopia è installato un DAP-meter che, durante l’emissione di radiazione X, integra con continuità il valore del prodotto dose × area. È dunque sufficiente dividere il valore misurato dal DAP-meter per l’area della sezione del fascio all’ingresso nel paziente per conoscere immediatamente il valore dell’ESAK (vedi fig. 2).

Per l’esecuzione di mammografie si utilizzano apparecchiature dedicate, nelle quali la sorgente radiogena è costituita da un tubo con finestra di berillio e anodo, nella maggior parte dei casi, di molibdeno, fatto funzionare a una tensione di 28–35 kV. Il fascio prodotto viene filtrato con una sottile lamina di molibdeno (0,03 mm), in modo da ottenere un fascio praticamente monocromatico che interagisca con il tessuto mammario prevalentemente per effetto fotoelettrico, così da generare immagini ad alto contrasto (vedi fig. 3).

Le immagini possono essere acquisite sia con tecnica “tradizionale” (due o più proiezioni) sia con la tecnica più recente e innovativa della tomosintesi. Tale tecnica comporta l’esecuzione di più proiezioni della mammella, sulla base delle quali un software dedicato ricostruisce le immagini di sezioni molto sottili (1 mm) dell’organo, con un aumento cospicuo del potere risolutivo. Per entrambe le tecniche il descrittore più appropriato è la dose ghiandolare media (AGD: Average Glandular Dose), il cui valore può essere facilmente calcolato tramite la seguente relazione:

AGD = ESAK $\cdot$ g $\cdot$ c $\cdot$ s ,

dove

g è un fattore di conversione kerma in aria – dose ghiandolare, il cui valore dipende dallo spessore della mammella compressa, composta per il 50% da tessuto ghiandolare e per il resto da grasso, e dallo spessore emi-valente (HVL: Half Value Layer) del fascio di raggi X impiegato in un materiale di riferimento (generalmente Al);
c è un parametro correlato alla percentuale effettiva di tessuto ghiandolare;
s è un parametro correlato al materiale anodico (Mo/W/Rh) e alla filtrazione del fascio.

Nelle prime apparecchiature per tomografia computerizzata (TC seriale) le immagini delle sezioni assiali del corpo venivano acquisite in successione, tramite l’esplorazione delle sezioni stesse con un sottile fascio a ventaglio (fan beam) che, ruotando attorno al paziente solidalmente con un “banco di rivelatori” contrapposto al tubo radiogeno fatto funzionare a una tensione di 120–140 kV, generava una serie di “profili di attenuazione”, grazie ai segnali prodotti dai rivelatori. L’immagine di ogni singola sezione (slice) veniva poi ricostruita tramite tecniche numeriche di tipo iterativo oppure tramite tecniche matematiche di retroproiezione filtrata (filtered back-projection).

Al fine di “quantificare” la dose in aria nella scansione di n strati con uno spessore T ciascuno, venne introdotto (EUR 16262 EN, IEC 60601-2-44) il descrittore di base CTDI100 (Computed Tomography Dose Index: Indice 100 di dose in TC).

Nella fig. 4:

D(z) è il profilo della dose assorbita in aria lungo una linea z perpendicolare al piano tomografico;
n è il numero di strati tomografici acquisiti simultaneamente (n = 1 per i tomografi a singolo strato, n = 4, … per tomografi a 4, … strati);
T è lo spessore nominale dello strato tomografico o, nel caso di TC multistrato, l’ampiezza del gruppo di rivelatori. Il significato fisico di D(z) è illustrato nella fig. 4: a causa della divergenza del fascio viene assorbita dose non soltanto in ogni singolo strato esplorato ma anche, seppure in misura molto minore, negli strati adiacenti.

Per la misura del CTDI100 in aria veniva, e viene tuttora, utilizzata una camera a ionizzazione lunga 10 cm e sottile (pencil camera), collocata in aria sull’asse di rotazione del fascio (vedi fig. 5).

Il passaggio dalla dose in aria alla dose al paziente è reso possibile dalla misura del CTDI100 in appositi fantocci cilindrici di PMMA (polimetilmetacrilato) aventi diametro di 16 cm (head phantom) oppure di 32 cm (body phantom), provvisti di inserti removibili, paralleli all’asse, per consentire l’inserimento della pencil camera al centro del fantoccio e a 1 cm dalla sua superficie esterna, nei quattro punti cardinali (vedi fig. 6).

Detti:

• CTDI100, c il valore misurato, per una singola scansione, nel centro del fantoccio,
• CTDI100, p la media dei valori misurati per una singola scansione alla periferia del fantoccio, si definiscono come CTDIw (“weighted”, pesato – IEC 60601-2-44) la somma

CTDIw = (1/3 CTDI100, c + 2/3 CTDI100, p) mGy

e come nCTDIw (CTDI normalizzato e pesato) la grandezza

nCTDIw (mGy/mAs) = CTDIw /mAs,

dove mAs (milliampère $\cdot$ secondo) è l’esposizione tomografica E, cioè il valore del prodotto della corrente anodica (mA) per la durata (espressa in secondi) di una rotazione completa del tubo attorno al paziente.

In un esame completo di TC seriale nel quale siano stati esplorati N strati aventi ciascuno uno spessore T, con un’esposizione tomografica E (mAs), la “dose globale” ricevuta dal paziente viene allora espressa tramite il descrittore DLP (Dose Length Product), definito come:

DLP = Σi nCTDIw $\cdot$ T $\cdot$ N $\cdot$ E (mGy $\cdot$ cm).

L’evoluzione tecnologica ha portato, ormai da una ventina d’anni, a una realizzazione importante: la TC elicoidale multistrato. Le nuove apparecchiature consentono di acquisire in tempi brevissimi (sino a 1 s) l’immagine di volumi estesi del corpo. Il fascio a ventaglio (fan beam) è sostituito da un fascio conico (cone beam) (vedi fig. 7) e il singolo banco di rivelatori da una serie di rivelatori accostati l’uno all’altro, 64 nelle apparecchiature più diffuse, sino a 320 in quelle più sofisticate (vedi fig. 8).

Per tali apparecchiature la dose media lungo l’asse z di rotazione dell’insieme tubo-rivelatori, nello strato centrale di una serie di N strati quando si è impostato un incremento costante tra strati successivi, è nota come MSAD (Multiple Scan Average Dose) (vedi la fig. 9) e il DLP è definito come:

DLP = Σi nCTDIw $\cdot$ T $\cdot$ A $\cdot$ t,

essendo ancora

T lo spessore di ogni singolo strato,
A la corrente anodica (mA),
t il tempo totale di acquisizione,
nCTDIw il valore determinato per un singolo strato, come nella TC seriale.

Il CTDIvol (CTDI volumetrico) descrive la dose media nel volume totale esplorato, per le condizioni di funzionamento TC selezionate:

• nelle scansioni assiali (TC-seriale), CTDIvol = CTDIw ,
• nelle scansioni elicoidali (TC elicoidale multistrato), CTDIvol = CTDIw/pitch , essendo il “pitch” definito come il rapporto ΔD/T fra l’avanzamento ΔD (espresso in mm) del tavolo porta paziente durante una rotazione completa del tubo radiogeno e lo spessore T del singolo strato.

Si deve peraltro rilevare che la dose assorbita da un paziente sottoposto a un’indagine TC dipende non solo dai parametri fisici, sui quali si basa il valore del CTDIvol, relativi al protocollo utilizzato e misurati su fantocci cilindrici con diametri di 16/32 cm, ma anche dalle dimensioni dei singoli pazienti. Per questo motivo l’AAPM (American Association of Physicists in Medicine) ha introdotto un fattore adimensionato SSDE (Size-Specific Dose Estimate) con il quale correggere i valori del CTDIvol in funzione delle dimensioni effettive dei pazienti. Tale fattore correttivo è compreso fra 0,271 e 2,79 per i valori del CTDIvol misurati su un fantoccio con diametro di 32 cm e fra 0,22 e 1,5 per quelli misurati su un fantoccio con diametro di 16 cm.

A partire dal valore del DLP è invece possibile determinare la dose efficace per un particolare protocollo di esecuzione dell’esame, utilizzando valori normalizzati di dose agli organi, calcolati mediante l’utilizzo di tecniche Montecarlo oppure di fantocci antropomorfi. Secondo EUR 16262 EN un metodo molto semplice per la stima della dose efficace E negli esami TC consiste nell’uso della relazione

E = EDLP $\cdot$ DLP,

dove EDLP (mSv . mGy-1 $\cdot$ cm-1) è la dose efficace normalizzata, i cui valori sono riportati nella tabella 2.

4 Effetti deterministici ed effetti stocastici

In una nota all’Accademia di Francia, nel 1901, Pierre Curie ed Henry Becquerel scrivono, fra l’altro “Les rayons du radium agissent energiquement sur la peau: l’effet produit est analogue à celui qui résulte de l’action des rayons de Röntgen […]. Les mains ont une tendance générale à la desquamation, les extrémités des doigts qui ont tenu les tubes ou capsules renfermant des produit très actifs deviennent dures et parfois très douloureuses; pour l’un de nous, l’inflammation des extrémités des doigts a duré une quinzaine de jours et s’est terminée par la chute de la peau, mais la sensibilité douloureuse n’a pas encore complétement disparu au bout de deux mois”.

Si tratta della prima comunicazione scientifica di uno dei tanti possibili effetti deterministici prodotti sull’uomo dall’esposizione a radiazioni ionizzanti.

Per effetti deterministici si intendono effetti somatici che si verificano nell’individuo esposto soltanto se la dose assorbita per “esposizione acuta” (cioè, intensa e di breve durata) è superiore a un valore di soglia, tipico per l’effetto, e la cui gravità è tanto maggiore quanto maggiore la dose. Questi effetti, a volte, sono reversibili. Sulla base della descrizione fattane da Curie e Becquerel, l’effetto descritto viene oggi chiamato eritema bolloso, con una dose soglia di 6–10 Gy.

Nelle tabelle 3 e 4 sono riportati alcuni effetti deterministici conseguenti a esposizione acuta parziale/totale.

Quando la dose totale è inferiore alle soglie specifiche per i singoli effetti, l’esposizione a radiazioni, parziale o totale, può provocare nel nucleo delle cellule un danno al patrimonio genetico che, a distanza di anni, può dar luogo all’insorgenza di tumori radioindotti, a danni genetici nella progenie degli individui esposti e, in certe condizioni, a effetti inerenti allo sviluppo.

L’esposizione a basse dosi può dunque essere la causa di effetti stocastici, intendendo come tali gli effetti (“tutto/ niente”) la cui probabilità di accadimento, ma non la cui gravità, dipende dalla dose. Tali effetti stocastici possono essere di tipo somatico (leucemie, linfomi, tumori solidi) quando si verificano nell’individuo esposto, oppure di tipo genetico (malformazioni, ritardo mentale, riduzione del quoziente di intelligenza (Q.I.)) quando si verificano nella sua progenie.

Per stimare la probabilità di insorgenza di effetti stocastici è necessario conoscere la relazione tra la dose (D) e la probabilità dell’effetto p(E).

Il grafico della fig. 10 mostra una rappresentazione schematica e qualitativa delle curve che esprimono p(E) in funzione di D. I pallini rossi esprimono dati certi (ricavati principalmente dagli studi compiuti sui sopravvissuti alle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki). La curva in blu di tipo sigmoidale rappresenta, almeno per le radiazioni a basso LET (come i raggi X utilizzati nelle procedure radiologiche), l’andamento più probabile della relazione dose/effetto. La retta tratteggiata, ottenuta estrapolando linearmente la probabilità dell’effetto riscontrata ad alte dosi, molto probabilmente sovrastima il rischio alle basse dosi. Per i soli scopi della radioprotezione si adotta peraltro l’ipotesi che la relazione dose/effetto sia di tipo lineare (LNT: Linear Non Threshold). Ciò significa ammettere che:

RISCHIO = 0 soltanto per DOSE = 0.

Allo stato attuale delle conoscenze, si deve quindi ritenere che:

• tutte le dosi aumentano il rischio di un cancro
• il rischio è additivo
• il rischio per unità di dose è costante
• le variabili biologiche sono ininfluenti rispetto alla dose.

Secondo la Pubblicazione ICRP 103, i coefficienti nominali di rischio per effetti stocastici a seguito di esposizione del corpo intero a radiazione a basso rateo di dose sono i seguenti:

• cancro: 5,5 $\cdot$ 10-2 Sv-1,
• malattie ereditarie sino alla seconda generazione: 0,2 $\cdot$ 10-2 Sv-1,
• riduzione del Q.I.: non significativa a basse dosi, reale solo per $D > 100$ mSv.

La stessa Pubblicazione ICRP 103 riporta altresì i valori dei coefficienti nominali di rischio per l’irradiazione dei singoli organi/tessuti, sottolineando peraltro che per la valutazione del rischio effettivo derivante da esposizioni mediche sono indispensabili informazioni dettagliate, oltre che sugli organi irradiati, sull’età e sul sesso del paziente. Sottolinea inoltre che il valore della dose efficace nelle singole procedure radiologiche va utilizzato per effettuare confronti fra procedure diverse, ma non è appropriato per una corretta stima del rischio effettivo.

Sulla relazione dose-effetto sintetizzata nella fig. 10 si basano tutte le stime dei rischi da radiazioni ionizzanti e gli stessi valori dei limiti di dose per i lavoratori esposti e per la popolazione utilizzati nella normativa di radioprotezione. Merita però di essere ricordata anche la teoria dell’ormesi, che ipotizza una relazione dose-risposta caratterizzata da un effetto bifasico. Sulla base di tale teoria, “piccole dosi” (comprese, approssimativamente, fra la dose dovuta al fondo naturale e una dose cento volte maggiore) non solo non produrrebbero un detrimento ma, al contrario, comporterebbero per i soggetti esposti una serie di “benefici”, in termini di supporto alla crescita e allo sviluppo, aumento della fertilità, più rapida guarigione dalle ferite, immunocompetenza, resistenza alle infezioni e alla morbidità da radiazioni, riduzione dell’incidenza di tumori. Dosi esterne a tale intervallo, e in particolare dosi maggiori del suo limite superiore, provocherebbero invece un detrimento. In sostanza quindi, l’ormesi viene considerata una “funzione adattativa”.

L’andamento della curva dose/risposta ipotizzato dalla teoria dell’ormesi è illustrato nella fig. 11.

Riguardo agli eventuali effetti benefici dell’esposizione a basse dosi, sono state effettuate, nel corso degli anni, numerose ricerche, di laboratorio ed epidemiologiche. Fra queste ultime, vale la pena di ricordare quella riferita da Chen et al. relativa a un evento accaduto a Taiwan nel 1982. Acciaio riciclato proveniente da una centrale nucleare e contaminato accidentalmente con 60Co era stato utilizzato nella costruzione di più di 180 edifici, occupati per un periodo da 9 a 20 anni da circa 10000 persone. Le stesse assorbirono, in media, una dose di 400 mSv, corrispondente a una dose collettiva di 4.000 man-sievert.

Sulla base del riscontro, nel periodo dal 1982 al 2002, di sette decessi per cancro, fu calcolato un tasso di mortalità per cancro pari a 3,5 per 100000 persone-anno. Inoltre, furono riscontrati tre casi di bambini nati con malformazioni cardiache, con un tasso di prevalenza di 1,5 casi per 1000 bambini di età inferiore a 19 anni.

Il tasso medio di mortalità per cancro per la popolazione di Taiwan nello stesso periodo fu pari a 116 persone per 100000 abitanti. Il tasso medio di malformazioni congenite fu di 23 casi per 1000 bambini. Sotto l’ipotesi che la distribuzione per età e la situazione socio-economica del gruppo controllato fossero uguali a quelli relativi alla popolazione in generale, si può inferire, secondo gli autori della pubblicazione citata, che effetti sanitari “benefici” possono essere associati a questa esposizione cronica: 7 casi di decessi per cancro riscontrati contro 232 “attesi” (3%), 3 casi di malformazioni congenite osservati contro 43 attesi (6,5%).

5 Dose e rischio in gravidanza

I rischi di effetti di tipo stocastico per l’embrione/feto derivanti dall’esecuzione di procedure radiologiche durante la gravidanza della madre sono correlati al periodo di gestazione e alla dose assorbita. Si deve peraltro sottolineare che per dosi inferiori a 1 mSv il rischio è trascurabile e che gli effetti imputabili all’esposizione a radiazioni possono verificarsi anche “spontaneamente” o possono essere prodotti pure da altre cause.

Come risulta dalla tabella 5, il rischio è assente nei primi 9 giorni della gravidanza, è particolarmente significativo nel periodo dell’organogenesi, che si estende dalla terza all’ottava settimana, mentre si “stabilizza” nelle settimane successive.

Nelle procedure radiologiche che non comportano l’esposizione diretta dell’addome della madre (esami dentali, radiografie del torace e degli arti, TC del cranio e TC toracica) la dose all’embrione/feto è dovuta esclusivamente alla radiazione diffusa all’interno del corpo della paziente e alla radiazione di fuga dal complesso tubo-guaina (che peraltro può essere facilmente schermata coprendo l’addome con un telo in gomma piombifera con spessore equivalente a 0,5 mm Pb), e molto difficilmente è superiore a 1 mSv. La TC della regione addomino-pelvica ed eventuali indagini fluoroscopiche della stessa regione comportano invece dosi molto elevate (anche di qualche decina di mSv) e non dovrebbero essere eseguite in gravidanza, salvo casi di assoluta necessità, e previa informazione e consenso della paziente (vedi tabella 6).

6 La dose al paziente nelle varie procedure radiologiche e i Livelli Diagnostici di Riferimento

Al fine di garantire che nelle singole procedure radiologiche, e in particolare negli esami radiografici e di tomografia computerizzata, la dose al paziente sia quella più appropriata per ottenere immagini di qualità soddisfacente per le esigenze cliniche, la Comunità Europea prima e il nostro paese poi (D.lgs. 187/2000) hanno introdotto il concetto di Livelli Diagnostici di Riferimento, definendoli come “Livelli di dose nelle pratiche radiodiagnostiche mediche […] per esami tipici per gruppi di pazienti di corporatura standard o fantocci standard per tipi di attrezzatura ampiamente definiti. Tali livelli non dovrebbero essere superati per procedimenti standard, in condizioni di applicazione corrette e normali riguardo all’intervento diagnostico e tecnico”.

I valori dei livelli diagnostici di riferimento previsti dalla legislazione vigente sono riportati nella tabella 7.

Nell’ambito della mammografia, sia clinica che di screening, il descrittore di dose più appropriato, in quanto si riferisce all’intero esame e non a una singola proiezione, è la dose ghiandolare media (AGD). Nella tabella 8 ne sono riportati i valori raccomandati nelle Linee Guida della Comunità Europea.

I valori dei Livelli Diagnostici di Riferimento devono, per quanto possibile, essere rispettati dalle singole strutture sanitarie che erogano “prestazioni radiologiche”. Peraltro, ai fini di un confronto, soprattutto nell’ambito della TC, fra protocolli diversi per l’esecuzione di uno stesso esame e per il “confronto dosimetrico” fra procedure/esami diversi, il parametro più significativo è la dose efficace. Riguardo a tale parametro, non esistono, nella normativa vigente, né limiti né livelli di riferimento. Ne sono state fatte però diverse stime, i cui valori sono riportati nella tabella 9.

Nelle indagini radiografiche e di TC la dose che verrà assorbita dal paziente è sostanzialmente prevedibile, in quanto determinata dalla tipologia della procedura e dai corrispondenti parametri tecnici di esposizione (kV, mA, secondi). Ciò non accade invece nelle procedure di tipo interventistico, in particolare quelle cardiovascolari, nelle quali la durata dell’osservazione fluoroscopica della regione interessata è determinata dalle esigenze cliniche e può protrarsi anche per molti minuti. La dose assorbita dal paziente è quindi legata in parte alla complessità della procedura, in parte all’esperienza e alla rapidità dell’operatore. Quando la durata dell’intervento è lunga, è assolutamente necessario che l’operatore tenga sotto osservazione fluoroscopica la regione interessata attraverso più direzioni di incidenza del fascio, così da non “concentrare” tutto il carico di radiazioni su un’unica “porta di ingresso”. In caso contrario, la dose a livello cutaneo può essere addirittura superiore alla soglia per effetti deterministici gravi e spesso irreversibili (cfr. anche la tabella 2).

Nella tabella 10 sono riportati i valori della dose efficace in alcune procedure di tipo interventistico.

7 Criteri e metodi per la riduzione della dose

Come già ricordato in sez. 2, nel nostro paese, come in tutti i paesi sviluppati, viene eseguito mediamente più di un esame radiologico/anno per abitante. Una percentuale significativa di questi esami non contribuisce in alcun modo a risolvere il quesito diagnostico/clinico e comporta quindi, come ben sottolineato nelle Linee Guida in Diagnostica per Immagini elaborate dalla SIRM (Società Italiana di Radiologia Medica) “una indebita irradiazione del paziente e un aumento della dose collettiva alla popolazione”.

Al fine di ridurre la frequenza degli “esami inutili”, le stesse Linee Guida concentrano la propria attenzione su tre aspetti fondamentali: “la giustificazione delle indagini (e quindi l’appropriatezza), la radioprotezione e il contenimento della spesa” e illustrano, per i vari distretti corporei e per i vari apparati:

• i problemi clinici per i quali si richiede una procedura radiologica;
• le possibili tecniche di imaging;
• le raccomandazioni (con il grado di evidenza) circa l’appropriatezza o meno della procedura;
• quando siano disponibili, valori documentati della dose al paziente.

Tutte le procedure radiologiche “giustificate” devono anche essere ottimizzate, nel senso di essere eseguite, dal punto di vista tecnico-operativo, in modo da ottenere l’informazione clinica richiesta con la minor dose al paziente possibile, nel rispetto del principio ALARA (As Low As Reasonably Achievable).

Il processo di ottimizzazione riguarda la scelta delle attrezzature, la produzione di un’informazione diagnostica appropriata, l’attuazione di programmi per la garanzia della qualità, inclusi il controllo della qualità e l’esame e la valutazione della dose al paziente”. In questo contesto, per “controllo della qualità” si intende l’insieme delle operazioni intese “a valutare e a mantenere ai livelli richiesti i valori dei parametri di funzionamento delle apparecchiature che possono essere definiti, misurati e controllati” sulla base di protocolli predefiniti.

Secondo il D.lgs. 187/2000 i parametri da controllare per gli “impianti radiodiagnostici in generale” sono, fra gli altri:

• l’accuratezza e la precisione dei valori dell’alta tensione (kV) applicata al tubo radiogeno;
• la filtrazione totale del fascio;
• l’accuratezza e i tempi di esposizione nominali indicati dal timer dell’apparecchiatura;
• il rateo di kerma in aria alla distanza di 1 metro dal fuoco del tubo e per vari valori della tensione;
• la collimazione del fascio;
• le dimensioni della macchia focale del tubo (che può deteriorarsi nel tempo, in funzione del carico di lavoro);
• la corrispondenza fra “campo luce” (quello utilizzato per predisporre l’esecuzione dei singoli radiogrammi) e “campo raggi”.

I parametri principali da controllare per le apparecchiature per TC sono, fra gli altri:

• lo spessore dei singoli strati;
• l’incremento degli “avanzamenti” del tavolo porta-paziente;
• la risoluzione spaziale delle immagini (espressa in coppie di linee per mm: lp/mm);
• il rumore dell’immagine (espresso come deviazione standard dei numeri CT di una regione centrale di un fantoccio d’acqua o di materiale tessuto-equivalente);
• la risoluzione a basso contrasto (intesa come la capacità del sistema di visualizzare oggetti di piccole dimensioni con densità prossima a quella dell’acqua, inseriti in un fantoccio d’acqua);
• il CTDI.

Le procedure per la misura di detti parametri sono descritte dettagliatamente nel Report n. 4 dell’AIFM (Associazione Italiana di Fisica Medica).